5/1/2019
ECONOMIA
Mercati
Dicembre ha portato 312 mila nuovi assunti Trump: "Magnifico dato". Wall Street vola Però lo stop della Cina preoccupa chi esporta
Federico Rampini,
Dal nostro corrispondente
New York
Tripudio a Wall Street e non solo: il 2018 si è chiuso col "gran botto finale" per l’economia americana, che conferma la sua buona salute. A dicembre i nuovi assunti sono stati 312mila, il migliore dato da febbraio. Il totale annuo dei nuovi posti di lavoro creati ha raggiunto 2,64 milioni l’anno scorso e l’America ha collezionato ormai 99 mesi consecutivi di miglioramento dell’occupazione: questa è una performance che non ha precedenti nella storia. Se ne giovano anche i salari dei lavoratori, in aumento medio del 3,2% nel 2018, il migliore dall’Annus Horribilis del 2008. « Magnifico dato » , ha commentato Donald Trump. Questi numerFEDi eccellenti, insieme con le parole del presidente della Federal Reserve, ieri hanno entusiasmato Wall Street che ha più che cancellato le perdite dovute allo " shock di Apple" ( l’annuncio di un peggioramento nelle vendite di iPhone) nella seduta precedente. I pessimisti possono sempre sostenere che i dati positivi sul mercato del lavoro sono una sorta di "specchietto retrovisore", confermano che la crescita Usa è stata robusta l’anno scorso, ma non dicono nulla sul rallentamento futuro. Ma ai pessimisti si è rivolto con parole abbastanza rassicuranti il banchiere centrale Jerome Powell, promettendo « flessibilità » nella politica monetaria. L’inflazione rimane modesta, ha ricordato il presidente della Fed, e di conseguenza non c’è una «traiettoria pre- definita » di aumento dei tassi d’interesse nel 2019, la banca centrale si adatterà all’evolversi delle circostanze. Pronta a congelare i futuri rialzi del costo del denaro qualora si confermassero i segnali di una frenata. E anche questa è musica dolce per gli orecchi degli investitori, che sono tornati a rovesciare ordini d’acquisto a Wall Street, in una giornata di pura euforia. Dimenticando almeno per un giorno le altre incognite legate alla congiuntura politica: l’America è entrata nel 12esimo giorno del suo shutdown, la paralisi istituzionale che impedisce l’approvazione della legge di bilancio e lascia a casa 800.000 dipendenti dell’Amministrazione federale. La nuova Camera dei deputati, dove hanno la maggioranza i democratici, non cede all’ultimatum di Trump che vuole 5,7 miliardi di stanziamento per il Muro col Messico.
A chi tocca dopo Apple? 48 ore dopo la caduta di Borsa della regina della Silicon Valley, il tema è questo: quali multinazionali sono le più esposte al rallentamento dell’economia cinese. Il quale, dazi a parte, prima o poi doveva accadere: e ricorda per certi aspetti la parabola del Giappone negli anni Ottanta. Il Sol Levante passò in un arco di tempo abbastanza breve dall’essere una minaccia mostruosa per l’economia americana, al ruolo di "grande malato". Anche in quel caso il protezionismo americano ( i limiti all’import di auto imposti da Ronald Reagan) ebbe un ruolo, però fu solo il colpo finale ad un’economia nipponica che aveva altre malattie, tra cui una bolla speculativa.
I paragoni hanno dei limiti. La Cina ha una popolazione dieci volte superiore al Giappone, il che significa anche un mercato interno che in teoria può compensare la riduzione di sbocchi all’esperto. La Cina ha squilibri finanziari enormi (troppi debiti, pubblici e privati; sovrainvestimenti in infrastrutture) però il suo è un capitalismo iper-regolato, con restrizioni ai movimenti di capitali, che in passato hanno attutito gli shock. E anche quando si parla di rallentamento cinese bisogna guardare le cifre: i consumi cinesi sono cresciuti "solo" dell’8% l’anno scorso rispetto al 2017. È il minimo da 15 anni, quindi nell’ottica cinese è una frenata. Ma è un dato che altrove si definirebbe un boom. Tutto sta a capire da dove si parte e quali sono i paragoni di riferimento.
Comunque il rallentamento c’è e non lo sente solo Apple. Ford e General Motors, che ebbero decenni eccellenti sul mercato cinese fino a trovarci uno sbocco perfino superiore al loro mercato domestico, soffrono per il calo di vendite. A conferma che non si tratta di vendette politiche contro gli americani ordite da Xi Jinping come rappresaglia sui dazi, ha dovuto tagliare le sue previsioni di crescita anche Alibaba, il colosso del commercio online fondato da Jack Ma, che è l’equivalente cinese di Amazon.
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