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Per quattro poveri su dieci il lavoro non sarà la soluzione

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ECONOMIA
Il reddito
Gli effetti della riforma

MARCO RUFFOLO,
ROMA
Per quattro famiglie povere su dieci non può essere il lavoro lo strumento per uscire dalla povertà. Certo, tra di loro ci sono i pensionati per i quali non ha senso parlare di un nuovo impiego. Ma anche considerando solo gli adulti sotto i 60 anni, quelli che non potranno essere impiegati restano comunque moltissimi: oltre un terzo. In questa grossa fetta di poveri ci sono i "working poors", finiti sotto la soglia di una accettabile esistenza nonostante un lavoro lo abbiamo già. Ma ci sono anche i disabili, i malati e quanti devono assistere familiari che non stanno bene: per molti di loro è impossibile accettare un lavoro.
La conseguenza è che per tutte queste famiglie – il 35% dei poveri under 60 - avrà poco senso un reddito di cittadinanza condizionato all’accettazione di un’occupazione, ammesso che i Centri per l’impiego riescano a offrirglielo. Ce lo dice una ricerca di due economisti dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Massimo Baldini e Giovanni Gallo, che spiegano come si distribuiscono in Italia le famiglie povere, quelle con reddito inferiore al 40% del livello mediano nazionale, e quindi in sostanziale povertà assoluta. Lo studio conferma con dati alla mano una verità già ampiamente percepita, grazie a contributi come quello di Chiara Saraceno, che con il suo libro "Il lavoro non basta" spiega come sia un’illusione pensare di risolvere il problema della povertà puntando tutto su una congrua offerta di lavoro.
Per tutti gli operatori del settore – dalla Caritas all’Alleanza contro la povertà - essere poveri va bene al di là della sola mancanza di lavoro e di reddito. Ha in realtà a che fare con molte altre carenze: familiari, abitative, di salute, psicologiche. E dunque richiede una rete integrata di servizi, in gran parte locali, in grado di personalizzare il più possibile la risposta di reinserimento sociale. Ecco perché estromettere i Comuni (i soli ad avere il contatto diretto con le famiglie povere) dal coordinamento degli interventi necessari, e sostituirli con i Centri per l’impiego regionali (quasi tutti non funzionanti) – come sembra voler fare il governo con il reddito di cittadinanza – viene visto dagli operatori come un clamoroso errore, perché non vengono compresi i problemi di una grossa fetta dei 5 milioni di poveri esistenti oggi in Italia.
Su cento famiglie povere sotto i 60 anni, dice la ricerca, quelle in cui gli adulti lavorano tutti sono il 25%: ecco i working poors, poveri perché il loro salario è da fame o perché il contratto, quando c’è, è a intermittenza.
Un altro 10% di poveri è costituito da famiglie con gravi problemi di salute o di invalidità per le quali è improbabile accettare un lavoro. Resta dunque un 65% che almeno teoricamente potrebbe accedere ai lavori proposti dai Centri per l’impiego, anche se il condizionale è d’obbligo perché intervengono poi ostacoli oggettivi, che non risiedono solo nella inefficienza degli stessi Centri ma anche nella scarsità dei posti disponibili. Basti pensare che negli altri Paesi europei – dove i servizi per l’impiego funzionano molto meglio che da noi – le politiche contro la povertà riescono a trovare un lavoro stabile a non più del 25% di tutti i poveri.
Ma a parte le soluzioni che saranno cercate per dare un impiego a chi potrebbe averlo, resta il problema di come venire incontro a quel terzo di poveri per i quali il lavoro non è e non sarà la risposta. Così come non lo è il solo sussidio finanziario se non è accompagnato dall’offerta di quei servizi reali di cui quelle famiglie hanno urgente bisogno: casa popolare, salute, assistenza sociale, scuola. E qui entra in gioco non solo l’efficacia del welfare nazionale, ma anche il ruolo dei Comuni, che secondo l’Istat, è indispensabile rafforzare se si vuole fronteggiare la povertà. Oggi, accanto a non poche esperienze positive, ci sono ancora scandalose carenze, soprattutto al Sud. In Calabria la quota dei Comuni con servizi di assistenza sociale è di appena il 19%, il Campania del 32, contro una media nazionale del 61. Il sostegno socio-educativo territoriale è offerto al Nord da oltre il 40% dei municipi, al Sud dal 20. E poi ci sono servizi che stentano a funzionare in tutta Italia, come l’assistenza domiciliare socio-assistenziale, attivo solo nel 38% dei casi, o come il pronto intervento sociale, disponibile solo nel 2,3%. C’è insomma nel welfare comunale, e non solo in quello, un grande buco di cui però non si parla, come se la povertà si potesse combattere anche senza preoccuparsi di fornire i servizi di un dignitoso stato sociale.

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