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I MUSCOLI SGONFIATI

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27/11/2018
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L’analisi

Francesco Manacorda
Perché solo ora? È ovvio chiedersi quali siano le ragioni di una svolta di fronte al repentino cambiamento di rotta del governo sui saldi della manovra per il 2019 e in particolare sul rapporto tra deficit e Pil al 2,4%. Ed è naturale anche domandarsi perché il governo abbia atteso tanto — mettendo in tensione i tassi sui titoli di Stato e così mettendo in pericolo anche le banche e i risparmiatori — prima di arrivare a un negoziato. Meno ovvia forse è la risposta.
Prima abbiamo assistito a settimane ininterrotte di proclami stentorei contro Bruxelles, le " letterine" e i " numeretti", in cui quel 2,4% veniva difeso come una nuova linea del Piave. Da domenica, invece, trionfa il dialogo con la Commissione europea, un’improvvisa consapevolezza grazie alla quale — dice Salvini scavalcando in realismo gli alleati 5 Stelle — «non ci impicchiamo agli zero virgola » . In mezzo c’è stato un faccia a faccia a Bruxelles tra il presidente della Commissione e l’ala dialogante ma finora impotente del governo, ossia il premier Conte e il ministro del Tesoro Tria, una salita dello spread tra i Btp e i Bund tedeschi che ha toccato martedì scorso il picco di quota 336 prima di ridiscendere, un clamoroso fallimento dell’asta dei Btp Italia con poco più di 2 miliardi di domanda di fronte ai 7-8 miliardi attesi.
Una prima spiegazione può essere che proprio la pressione costante dei mercati abbia spinto il governo a un atteggiamento meno muscolare: tassi in aumento significano difficoltà nei bilanci bancari, problemi per chi fa impresa, svantaggi concreti — la Banca d’Italia li ha quantificati in un’erosione del 2% della ricchezza — per chi risparmia. Un terreno pericoloso sul quale possono fiorire le contestazioni, a cominciare da quelle dell’industria del Nord, che preoccupano in particolare la Lega.
C’è anche una spiegazione meno lineare di quanto sta accadendo, che può però essere ben comprensibile in termini di tattica politica. Ieri, sempre Salvini, a chi gli chiedeva il perché della retromarcia sui conti pubblici, ha risposto che si tratta invece di una fuga in avanti dalla trincea in cui l’Italia si era messa. In chiaro, l’ipotesi è che il governo italiano faccia dei passi avanti sul livello deficit/Pil, arrivando magari a scendere fino a un rapporto vicino al 2%, ma sapendo che in questo modo non incontrerà comunque l’approvazione di Bruxelles e non riuscirà a fermare la procedura d’infrazione che la Commissione ha messo in moto. A prima vista una mossa autolesionistica — si cede qualcosa senza ottenere nulla in cambio — ma di fatto un formidabile argomento di campagna elettorale, dove l’attuale esecutivo potrebbe provare a presentarsi come parte dialogante e ansiosa di trattare con i poteri europei, ma da essi respinto senza pietà in un chiaro caso di pregiudizio antitaliano. Quale che sia il fine ultimo della svolta leghista e, al traino grillina, resta che proprio quei "numeretti" rischiano di contare poco o nulla se l’intero impianto che sta alla base della politica economica gialloverde rimane discutibile e di scarso impatto. La manovra, con i suoi assunti impossibili sulla crescita economica ( un 1,5% per il 2019 che al di fuori dei palazzi di governo nessuno considera plausibile), il moltiplicatore irrealistico della spesa pubblica, l’assunto fantasioso di un tasso di sostituzione superiore a uno tra neopensionati grazie a quota 100 e nuovi assunti, i mille dubbi sul reddito di cittadinanza che potrebbe trasformarsi solo in nuova spesa assistenziale, non è disegnata per spingere la crescita, ma per alimentare in modo artificiale una domanda pubblica che rischia di non accendersi mai. Spostare un paio di miliardi sugli investimenti — come promette oggi il governo — è una mossa che va nella direzione giusta, ma che da sola non basta certo a dare fiato allo sviluppo. I bicipiti esibiti dalla maggioranza si sono un po’ sgonfiati, un barlume di consapevolezza pare affiorare tra gli azionisti del governo. Difficile, però, che basti.

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