Quantcast
Channel: Articoli interessanti
Viewing all articles
Browse latest Browse all 4946

Felice Maniero “Così trattai con gli uomini dello Stato Ho rimorsi per un solo delitto”

$
0
0
14/11/2018
CRONACA

ROBERTO SAVIANO
Intervista di
Quando intervisti un uomo che è stato un capo criminale, il primo obiettivo è capire cosa vuoi ottenere.
Inchiodarlo alle sue responsabilità?
Denunciare i suoi crimini più nascosti? Rintracciare il suo lato più umano? La mia ossessione è sempre la stessa: mostrare come i boss siano parte della nostra economia, siano capitalisti con mezzi diversi, farne emergere miserie e contraddizioni. E volevo, in questo caso, accendere un riflettore necessario sul nord Italia. Le mafie al Nord esistono da lunghissimo tempo. Per decenni si è negata la loro presenza e la loro esistenza. Si cerca di relegarle a fenomeno locale, meridionale o di attribuire questo esclusivamente a gruppi di invasori che dal Sud “infettano” alcune zone del Nord.
Non si tiene mai conto che le mafie si sono ramificate nel Nord Italia grazie a un’alleanza con l’imprenditoria e la politica settentrionale. Ma è esistita una mafia — una sola ad oggi — che al Nord non è solo cresciuta, ma è anche nata. Si è strutturata in Veneto negli anni ’70 e il suo fondatore e capo indiscusso è stato Felice Maniero.
Ho incontrato Maniero, ora collaboratore di giustizia. Nato negli anni ‘50 in un Veneto in miseria, dove in molti avevano scelto la via dell’emigrazione in Sud America, cresce con il mito dei fuorilegge, che gli sembrano “esseri superiori”. A 9 anni la prima pistola, a 12 anni i primi furti ai camion di caffè e formaggio, a 16 la prima rapina in una fabbrica.
Presto si passa ai laboratori di oro, e la vita di Felicetto cambia.
Ferrari, viaggi all’estero, yacht: i soldi sono così tanti che non sa come spenderli. Tutti vogliono fare rapine con Felice Maniero, perché con lui si porta a casa la pelle e la grana. «La prima cosa che valutavo era il piano di fuga, se non c’era possibilità di un piano di fuga, non veniva fatto niente», ma anche se qualcosa andava storto e si veniva arrestati, Maniero aveva escogitato un metodo efficace per uscire in fretta dai guai: usare le opere d’arte come merce di scambio con lo Stato.
All’alba del 23 febbraio del ’79 alcuni uomini entrano nella Basilica di San Marco a Venezia.

Rubano una collana di diamanti e altre pietre preziose dal quadro di una Madonna…

«Nicopeia».

Esattamente. Valore stimato all’epoca: un miliardo di lire.
Qualche settimana dopo, però, i gioielli vengono ritrovati, o meglio, fatti ritrovare. Perché avete deciso di rubare?

«Perché io avevo una pesante sorveglianza speciale, dovevo essere a casa alle 7 e venivo controllato tre volte al giorno… non ce la facevo più! E allora ho fatto fare il furto e poi ho contrattato…».

Lo Stato nega, ma in realtà c’è stato un meccanismo di questo tipo…

«Sì. M’hanno tolto la sorveglianza speciale e recuperato i gioielli».

E con chi avveniva la trattativa?

«Ah, guardi, a me a casa ne arrivavano tre o quattro ogni giornodi potentati».

Cioè uomini dello Stato? Forze dell’Ordine, Servizi…?

«Sì, sì».
Tra l’inizio degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 l’organizzazione di Maniero gestisce il gioco d’azzardo in Veneto, a Modena e in Jugoslavia. Ma Maniero riesce a guadagnare anche dal Casinò di Venezia, perché impone il pizzo ai cambisti, cioè coloro che prestano soldi a interessi altissimi ai giocatori. A quel punto il suo potere sul Nord-Est è tale che sono le mafie a bussare alla porta del bandito Maniero. Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, i Bono e Francis Turatello, che condivide con Maniero lo stesso soprannome: Faccia d’angelo. La sua ormai consolidata fama criminale riesce ad azzerare i pregiudizi e le diffidenze dei mafiosi verso il boss del Nord. Al boss del Brenta si rivolgono anche per la droga. A Maniero la coca arriva direttamente dalla Colombia; da lui si riforniscono per il mercato settentrionale camorra e ‘ndrangheta.

Quando iniziate a fare traffico di droga?

«Negli anni ’80 quando sono arrivati siciliani, camorristi e ‘ndranghetisti a venderla».

Quindi arrivano le mafie storiche a commercializzarla, e lì capite che…

«Che non era possibile non farlo noi altrimenti avrebbero preso ilmercato, e li avremmo avuti in casa!».

È vero che inizialmente lei era contrario al traffico di droga?

«Sì».

Anche perché, tra l’altro, dopo che iniziate a farlo, cominciano ad esserci in Veneto molti morti per droga…

«Eh certo…».

Quanto si ricavava dal traffico di droga?

«Molto. Guardi, il traffico di droga oggi è l’unica fonte di reddito — a parte il racket, che io non credo sia molto importante — delle mafie».

Se ci fosse stata la legalizzazione, i suoi affari ci sarebbero stati lo stesso o sarebbero stati fermati?

«I miei affari ci sarebbero stati lo stesso, perché io poco prima di collaborare ho fatto una rapina di 4 quintali di lingotti d’oro. Però per le altre organizzazioni la legalizzazione sarebbe la ghigliottina.Il prezzo crolla! Crolla il mercato! E quelli le rapine non le sanno fare, non sanno fare neanche i furti! Per cui vorrei vederli che si ammazzano per una… cassa di pomodoro!».

Per cui, per un narcotrafficante, il nemico principale è la legalizzazione?

« Io ne sono certo. Mi metto nei miei panni di una volta eh…

Ma lei sta ragionando sulla possibilità di legalizzare tutte le droghe, sia leggere che pesanti?

«No, io sto ragionando su come distruggere le mafie. A un prezzo che si pagherà ovviamente…».
Da un ex trafficante non si accettano, certo, lezioni, né indicazioni politiche, ma la testimonianza in questo caso è particolarmente significativa, perché Maniero ammette che per gli affari delle mafie — soprattutto per quelli delle mafie del Sud — la legalizzazione sarebbe stata la fine.
Volevo anche capire come ha fatto un uomo del Nord, veneto ad avere il rispetto delle organizzazioni militari meridionali, che storicamente considerano i settentrionali criminalmente incapaci di vera ferocia.
La risposta la dà Francesco Saverio Pavone, giudice istruttore del maxiprocesso alla Mala del Brenta: durante un processo a Gaetano Fidanzati per traffico di droga, «mentre con altre persone che avevano reso dichiarazioni contro di lui Fidanzati ha inveito dalle gabbie, minacciandoli, quando ha parlato Felice Maniero, che lo ha sempre guardato negli occhi, non ha mai detto una parola, quasi che ne temesse lo sguardo».
Maniero fissa negli occhi i boss meridionali, lo sguardo è territorio, conosce le regole, le apprende e le mantiene. Anche sulle condanne a morte agisce come i capi di cui aveva maggior rispetto criminale, come Antonio Bardellino: «Doveva essere punito o uno che ci voleva uccidere o uno che aveva tradito ed era dannoso. Se non era dannoso, veniva allontanato e non ce ne fregava niente, un divorzio totale. Invece la mafia siciliana, la camorra… ammazzano anche per soldi», ci tiene a sottolineare il boss del Brenta, che è stato condannato per 7 omicidi.
Ma solo per una morte Maniero dice di provare rimorsi: quella di Cristina Pavesi, la studentessa di 22 anni rimasta uccisa durante la rapina al treno Venezia-Milano il 13 dicembre 1990. Maniero pronuncia ufficialmente le sue scuse alla famiglia di Cristina, sapendo bene che, molto probabilmente, non potranno nemmeno essere accettate.
Maniero, con la sua perenne aria di sfida, è un uomo che – come ha descritto il giudice Pavone – ha gettato il patrimonio della sua intelligenza in imprese criminali.
Imprese criminali che hanno generato un dolore esponenziale.
Ecco, il dolore: tra tutte le domande che gli ho posto in questa lunga intervista, quella sul dolore è l’unica su cui l’ho sentito vacillare.

Viewing all articles
Browse latest Browse all 4946

Trending Articles