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Bari, il nuovo tribunale nel palazzo dell’imprenditore che prestava soldi ai clan

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12/7/2018
CRONACA
Il caso

giuliano foschini francesca russi
Dopo lo sgombero per i crolli, il ministero trasferisce gli uffici giudiziari.
 Ma adesso si scopre che l’immobile è di un amico di “Gianpi” Tarantini
Il “mister Wolf” dei 5 Stelle, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha un problema. E nemmeno piccolo. Il suo ministero ha infatti appena ordinato il trasferimento del Palazzo di giustizia di Bari — sgomberato perché stava per crollare — in un immobile di proprietà di Giuseppe Settanni, l’ « unico amico » di cui Gianpaolo Tarantini si poteva fidare, l’uomo che ha prestato « centinaia di migliaia di euro» al cassiere del clan mafioso Parisi.
Settanni è infatti amministratore della Sopraf srl, società di cui la sua famiglia è proprietaria al 50 per cento con l’imprenditore Roberto Patano. Sopraf è proprietaria dell’immobile appena scelto, al termine di una ricerca di mercato, dal ministero della Giustizia per ospitare gli uffici giudiziari penali di Bari che erano ospitati in tende da campo. Settanni deve essere un imprenditore di razza, uno di quelli che riesce a vedere nel futuro. Ha acquistato infatti il palazzo, sfitto da tempo, da un fondo pubblico, soltanto pochi mesi fa. Un acquisto che si è trasformato in un grande affare: il ministero dovrà infatti pagargli un milione e 200mila euro circa all’anno per i prossimi sei anni, salvo che non si trovi una soluzione definitiva in tempi più brevi.
D’altronde, del grande fiuto per gli affari di Settanni era certo il suo grande amico Gianpaolo “ Gianpi” Tarantini, l’imprenditore barese che scalò Palazzo Chigi nel 2011 presentando prostitute all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. «Io ho solo un amico di cui potermi fidare — raccontava Tarantini ai magistrati che lo interrogavano — Pino Settanni » . E per questo si spese con lui: attraverso Walter Lavitola, il re dei facilitatori italiani, cercò di procurare all’imprenditore, che all’epoca lavorava nel mondo di rifiuti, un contatto per un appalto con Eni. « Pino — diceva Tarantini — è così straricco che non ha bisogno. Mi diceva: “ Se ti danno quello te la gestisci tu, ti faccio un contratto di direttore commerciale, ti prendi il compenso più alto e tu diventi completamente autonomo. Parliamo che potevo gestire cifre — almeno per quello che diceva lui — di 30, 40, 50mila euro al mese. E finalmente potevo svoltare». Quelle di Lavitola erano però, come spesso gli accadeva, soltanto parole al vento: «Mi ripeteva sempre: “Sì, sì ho parlato con Scaroni, lo stiamo facendo”. Questo Pino, che non è uno scemo, diceva: “ Gianpaolo, vedi che ti stanno prendendo in giro”». E così, infatti, era.
Il nome di Settanni ( che non è stato indagato) torna poi in un’altra indagine della procura di Bari, molto delicata. È nelle migliaia di pagine dell’inchiesta Domino, il maxi processo che ha documentato i collegamenti tra la criminalità organizzata e i colletti bianchi della città. Il suo ruolo lo ha raccontato in qualità di testimone Settanni stesso il 28 settembre del 2015, in un’aula di quel palazzo che già allora cadeva a pezzi. « Ero molto amico di Michele Labellarte», l’imprenditore considerato il cassiere del clan Parisi, il più temibile di Bari. «Gli prestai tanti soldi, quando andai a trovarlo in ospedale, c’era il boss Savino Parisi o almeno così mi dissero dopo». In che cosa consistesse la sua amicizia con Labellarte è l’imprenditore a spiegarlo. «Mi veniva a chiedere soldi. Gli ho dato 100, 200mila euro. Eravamo amici. Una sera fui contattato dalla sua compagna che mi chiese un appuntamento e che si presentò con Nicola Settanni ( soltanto suo omonimo, considerato luogotenente del clan, ndr). Credevano che io fossi debitore di Labellarte. Così non è e l’ho spiegato loro».
Settanni era anche a conoscenza delle dinamiche interne al clan. Ha raccontato tra le altre cose di aver saputo da un esponente dei Parisi che Labellarte aveva ricevuto una «grossissima somma di denaro » da un altro boss, Michelangelo Stramaglia. In quel fascicolo era indagata anche la sua fidanzata dell’epoca per intestazione fittizia di beni: era accusata di avere intestato un conto corrente che in realtà utilizzava il cassiere Labellarte. Un’accusa poi finita in prescrizione. La fidanzata si chiamava Elvira Savino, oggi parlamentare di Forza Italia. Un’altra, insieme al ministro Bonafede, certamente contenta che la questione giudiziaria a Bari si sia risolta in fretta.

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