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SE IL GOVERNO IMPROVVISA

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12/7/2018
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La saga del Decreto dignità

Roberto Petrini
Esattamente mezzo secolo fa il filosofo Herbert Marcuse mosse i cuori di una generazione con l’indimenticabile slogan che invocava « l’immaginazione al potere » . Oggi qualche giovane si è affacciato alla stanza dei bottoni e il clima è di frizzante cambiamento: ma l’analogia finisce tristemente qui. Perché, invece dell’immaginazione, al potere si sta insediando l’improvvisazione.
Il film della prima prova legislativa della nuova maggioranza gialloverde è pieno di errori, furbizie, sottovalutazione delle norme basilari della finanza pubblica e, diciamo la verità, di vera e propria incapacità. Dopo una campagna elettorale all’insegna di promesse irrealizzabili, dalla flat tax alla riforma della Fornero, al reddito di cittadinanza, il battesimo del fuoco del governo Salvini-Di Maio è stato deludente. Il decreto dignità è composto di quattordici striminziti articoli senza una visione d’insieme e un progetto di riforma complessivo, con lo scopo di gettare un boccone in pasto all’opinione pubblica prima che cominciasse a innervosirsi per le mancate promesse.
Sul piano del metodo e della scrittura delle norme il voto è insufficiente. Il decreto è stato varato dieci giorni fa, accompagnato da un piccolo comizio del vicepremier Di Maio. Per dieci giorni è stato un provvedimento fantasma: oggi forse approderà in Parlamento, ma nel frattempo con un tocco di furbizia il governo ha fatto filtrare almeno tre testi diversi per “vedere l’effetto che fa”. Mossa sgrammaticata, sul piano della prassi politico-istituzionale, ma che ha comunque permesso alla stampa e al pubblico dibattito di individuare una serie di veri e propri errori, fortunatamente rimediati nei testi successivi. Come quello che pretendeva di “ multare” la delocalizzazione delle imprese anche all’interno dell’Unione europea, in contrasto con il principio della libertà di stabilimento sancito dai Trattati.
Sul precariato, vero dramma, si poteva agire con maggiore accortezza. Ad esempio, si è sparato contro i contratti a tempo determinato con il bazooka, mettendo in campo tre strumenti che la maggioranza degli osservatori ritiene alternativi: il tetto complessivo e il limite alle proroghe; l’aumento delle penali e infine l’introduzione delle cosiddette “causali”. Queste ultime specifiche indicazioni d’ingaggio sono un appesantimento burocratico e si prestano fisiologicamente al contenzioso: il decreto non se ne cura e allunga i termini per l’impugnazione da 120 a 180 giorni. Con il risultato che si ingolferanno i tribunali.
La questione delle coperture è stata affrontata con leggerezza. Nei primi testi semplicemente mancavano: è molto meglio infatti mostrare quello che si dà senza perdere tempo a illustrare gli inevitabili costi. Alla fine, grazie alla fermezza della Ragioneria, e allostand by al Quirinale, le coperture si sono magicamente materializzate. Si è scoperto che lo stop allo split payment anti-evasione per i professionisti costa 140 milioni in tre anni e che si dovrà rovistare tra i fondi di tutti i ministeri per coprirli. La lotta alla ludopatia comporta minori entrate per 150 milioni solo nel 2019: giusto farla, ma i costi non possono essere nascosti e così spunta un aumento delle tasse sui giochi. L’impreparazione al potere non paga, ma qualche lezione la dà: dal testo è scomparsa la paradossale pretesa del governo di provocare un aumento di consumi e del gettito per via delle maggiori assunzioni a tempo indeterminato. Cosa che molti ritengono improbabile anche perché il decreto le ha rese meno convenienti.

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