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La controriforma del Codice via i controlli sugli appalti

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10/7/2018
POLITICA
Lavori pubblici
Modifiche sul modello della Legge Obiettivo

Meno poteri all’Anac: per M5S-Lega prioritaria la rapidità delle opere sulla lotta alla corruzione. Ma i dati smentiscono la ( presunta) paralisi dei cantieri
gianluca di feo claudio tito

Che poi la stragrande maggioranza degli appalti pubblici siano in carico agli enti locali – in particolare ai comuni – e non al governo centrale, è un aspetto secondario per la coalizione Di Maio-Salvini.
Resta il fatto che la squadra guidata da Giuseppe Conte ha fatto partire l’iter per modificare il cuore del Codice degli appalti.
L’idea è quella di arrivare alla effettiva revisione entro quest’anno. Portando il provvedimento ad una approvazione parallela rispetto alla Legge di Bilancio 2019.
Anzi, proprio la riforma di queste procedure dovrebbe essere – secondo Palazzo Chigi - il principale volano per far ripartire l’economia e permettere di mettere in cantiere le due misure-bandiera di leghisti e grillini: flat tax e reddito di cittadinanza.
È stato istituito con questo fine presso il ministero delle Infrastrutture un tavolo incaricato di studiare rapidamente tutti i possibili cambiamenti. Di questo organismo fanno parte, oltre al dicastero guidato dal pentastellato Toninelli, l’Economia, la Presidenza del consiglio, la Ragioneria generale dello Stato, l’Ance (l’associazione dei costruttori) e, appunto, l’Anac.
Le intenzioni del governo sono già abbastanza chiare. Il punto di partenza è semplice: il Codice degli appalti è talmente complicato da aver bloccato la pubblicazione dei bandi di gara e da averne arrestato l’aggiudicazione.
Sostanzialmente il complessivo iter degli investimenti pubblici – vera garanzia di un impulso al pil – sarebbe compromesso da una normativa troppo attenta a tutelare la moralità dei lavori.
Una valutazione, però, contestata dai dati: il primo semestre 2018 segna un più 55,9 per cento nell’importo di bandi pubblicati rispetto allo stesso periodo del 2017 e un più 75,5 per cento di bandi assegnati.
Nonostante questi numeri, il governo è pronto ad abbattere anche alcuni capisaldi in passato condivisi da Lega e M5S al grido di “onestà, onestà”.
La modifica propedeutica, infatti, riguarda l’Anac. Nelle proposte il suo ruolo viene ridotto drasticamente. Viene sottratta all’organismo pilotato da Cantone la possibilità di impugnare i bandi di gara e di stabilire le regole di vigilanza.
Così come verrebbe ridimensionato il controllo sugli equi compensi e l’accreditamento delle imprese.
Quasi tutta la vigilanza preventiva, insomma, verrebbe soppressa. Al tavolo del confronto la stessa Autorità anticorruzione – anche con l’intenzione di limitare lo smantellamento delle procedure più importanti - ha dichiarato la disponibilità a rinunciare ad alcune verifiche, come quelle sulle stazioni appaltanti.
La seconda direttrice lungo la quale Palazzo Chigi si propone di muoversi è quella che viene definita la “privatizzazione” degli appalti. Nella sostanza il controllo dei processi di affidamento e realizzazione delle grandi opere sarebbe sottratto al “pubblico” e trasferito ai privati.
Questo riguarderebbe le funzioni connesse alla direzione dei lavori e alla certificazione di qualità dei progetti. Nelle discussioni al ministero delle Infrastrutture, il quadro di riferimento è infatti la “Legge Obiettivo” di Berlusconi.
Il meccanismo sarebbe allora quello della “concessione”: lo Stato dà in “concessione” ai privati il lavoro e la gestione dell’esecuzione è completamente, o quasi, esternalizzata. Con il governo di centrodestra la figura utilizzata era il “general contractor”. Una soluzione che è stata però foriera di diversi scandali e di sostanziosi ritardi nel completamento delle opere pubbliche, dall’Expo all’Alta Velocità, dalla Salerno-Reggio al Mose. Sul tavolo c’è pure il ritorno alla trattativa privata, seppur all’interno di liste preselezionate di fornitori, e l’ipotesi di dare più spazio alla scelta in base all’offerta minima, che spesso poi viene rimpinguata con costose varianti in corso d’opera. Ossia i meccanismi che più spesso hanno alimentato il mercato delle tangenti.
Il terzo punto riguarda i subappalti. Notoriamente una delle fonti più drammatiche di corruzione e di ritardi. Al momento l’attuale normativa prevede un tetto del 30 per cento ai subappalti. Il disegno – anche approfittando del fatto che la direttiva europea non lo prevede - è quello di cancellare il tetto o di elevarlo.
La somma di questi tre fattori stravolgerebbe nella sostanza il Codice degli appalti e soprattutto ne minerebbe l’efficacia anti-corruzione.
Anche perché i presupposti da cui prende le mosse questa nuova forma di “privatizzazione” delle opere pubbliche appaiono fragili.
L’idea che la lotta alla corruzione non serva più in quanto la presenza di M5S e Lega al governo sarebbe di per sé una garanzia, si scontra su un dato di fatto: la stragrande maggioranza degli appalti riguardano gli enti locali, in particolare i Comuni.
Quelli gestiti dagli enti centrali (quindi riferibili al governo) ammontano a meno dell’8 per cento del totale.
Per non parlare della denunciata paralisi: le ultime statistiche spiegano che l’importo dei bandi pubblicati è cresciuto del 55,9 per cento rispetto al 2017. Tra questi i bandi più consistenti, ossia quelli con una spesa superiore ai 50 milioni di euro, sono raddoppiati. Persino quelli aggiudicati (quindi in via di realizzazione) sono cresciuti: del 75,5 per cento. Gli “appalti di sola esecuzione” (quelli con il progetto già approvato e solo da compiere) sono addirittura saliti del 252 per cento.
Ma davvero la corruzione in Italia è solo una questione di percezione?

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