COMMENTI
Il punto
Stefano Folli
Il colloquio al Quirinale tra il capo dello Stato e il ministro Salvini segna in modo quasi simbolico l’esaurirsi della prima fase del governo M5S-Lega. La fase ruggente, quella in cui ogni giorno si spara un colpo di cannone. Non poteva durare in eterno, pena lo sfrangiarsi di una coalizione già sottoposta a forti tensioni. Non sappiamo come sia andato l’incontro, ma non è difficile immaginarlo. Una conversazione istituzionale fra il presidente della Repubblica e il responsabile del Viminale sui temi tipici dell’attività di quest’ultimo: il contrasto all’immigrazione clandestina, la sicurezza, le prospettive. Che si sia parlato anche della questione giudiziaria che ha scosso la Lega, è plausibile, anzi molto probabile. Ma non emergerà nulla, al di fuori della cornice ufficiale del colloquio. Del resto, Mattarella può fare ben poco anche come presidente del Csm. Il giudizio di Salvini sull’impronta “tutta politica” della sentenza di primo grado equivale anch’esso una valutazione politica. Per cui il valore dell’incontro al Quirinale si misura in se stesso: nel fatto che si sia svolto. Peraltro tutto quello che riconduce Salvini nell’alveo istituzionale e disinnesca la sua esuberanza, è positivo e lo aiuta a non commettere un errore di troppo. Il rapporto del leader leghista con la magistratura è burrascoso e tale resterà. Ma se si guarda al terreno delle istituzioni, c’è chi ritiene prioritario convincere tutti i protagonisti della nuova scena politica — quindi non solo Salvini — che esiste una differenza fra la propaganda immediata, adatta a un talk show, e l’azione di governo, i cui risultati spesso non sono immediati e richiedono un lungo sforzo di mediazione: sia che si tratti della frontiera del Brennero sia che si vada a stringere qualche patto nei deserti della Libia. Non a caso, il ministro dell’Interno ha dovuto comprendere la distinzione tra chiudere i porti alle navi delle Ong e affrontare il tema della missione europea nel Mediterraneo affidata alle Marine militari. Nel primo caso, come abbiamo visto, la decisione è rapida, se non si bada all’aspetto umanitario. Nel secondo non basta alzare la voce in quanto esistono precisi accordi internazionali e modificarli non è affare di breve momento. Soprattutto non è questione che si risolve dal Viminale con un tratto di penna. Ecco perché, come avrebbe detto Churchill, stiamo probabilmente assistendo «alla fine dell’inizio». Per il semplice motivo che dopo il primo mese la complessità dei problemi impone maggiore realismo a chi governa. Se il ministro della Difesa, un tecnico, rammenta a Salvini che le regole della missione militare si possono cambiare, ma questo va fatto nelle sedi idonee, non c’è una contrapposizione di linee all’interno dell’esecutivo. Tuttavia si dimostra l’esigenza di ricondurre sul piano del negoziato e, appunto, della mediazione quello che altrimenti è solo il fragoroso annuncio di un obiettivo politico. Idem per il volo in Libia del ministro degli Esteri, Moavero, che in questi giorni sta anche preparando il viaggio più difficile: quello del premier Conte nella Washington di Trump alla fine del mese. Salvini ha messo molta carne al fuoco. Ora deve affrontare limiti e contraddizioni del suo dinamismo, compresi i conflitti d’interessi fra “sovranisti” (vedi Austria). Del resto, come ricorda Draghi riferendosi alla politica economica, «dal governo di Roma aspettiamo i fatti prima di giudicarlo». Un proposito che vale per tutto, dalla questione migratoria alle misure sociali. L’esperimento giallo-verde dovrà cambiare passo.
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