9/7/2018
COMMENTI
Il commento
Piero Ignazi
L’irresolutezza della classe dirigente del Pd rischia di condurre il partito in un vicolo cieco. Nessuno sembra rendersi conto dello sfarinamento di quel consenso che ha assicurato al Partito democratico il controllo ( pur fortunoso) del governo per tutta la legislatura passata, soprattutto dopo la fine dell’infausta “ grande coalizione” con Forza Italia, e di tante amministrazioni locali. Basti ricordare che dopo la non-vittoria di Bersani alle politiche del 2013 il partito vinse alla grande le comunali a Roma e in tante altre città. Vale a dire, il Pd aveva ancora la progettualità politico-ideale e le risorse umane sufficienti a raccogliere i voti, e le speranze, di varie componenti sociali. E lo scatto in avanti del 2014 sembrava confermare le sue potenzialità.
Poi tutto si è inceppato. Non si è capito cosa rappresentavano Grillo e il suo movimento né quali effetti disgreganti esercitavano nei confronti dell’elettorato democratico. Il giovane segretario Renzi, tanto smart e moderno, si è rifugiato in una vecchia politica, vecchia nei riferimenti culturali (la terza via blairiana di vent’anni prima) e nei riferimenti politici (il rapporto con Berlusconi, icona di un tempo che fu). E vecchia nell’idea che i partiti, intesi come comunità e organizzazione, fossero superati, mentre senza di loro c’è solo comunicazione che si perde nell’aria. E per finire — errore capitale — che tutto si riducesse alle capacità salvifiche di un leader. Alla fine, l’impostazione politico- culturale renziana, scambiata spesso per riformismo, come se riformismo fosse l’acquiescenza alle dinamiche del capitalismo nelle sue multiformi versioni e non l’azione pubblica per modificare i rapporti di forza tra chi “ha” e chi “non ha”, è naufragata di fronte a una realtà del tutto diversa da quella prefigurata. La realtà reale rifletteva una società sofferente e ripiegata sulle proprie insicurezze, alla quale suonavano irridenti gli entusiasmi del governo dei mille giorni.
La segreteria Renzi è, ovviamente, responsabile di aver portato il partito a una serie di sconfitte, mai vista prima in numero e dimensioni. Solo per questo Renzi dovrebbe avere il pudore di ritirarsi in silenzio dopo aver ammesso le proprie responsabilità come egli stesso, un tempo, invocava parlando d’altri. Ma non si può gettare la croce solo su di lui. Certo, l’allucinante serie di motivazioni addotte dall’ex segretario per motivare la sconfitta del 4 marzo lascia esterrefatti e persino perplessi sulla sua proverbiale lucidità politica, fin qui. Ma tutta la classe dirigente del Pd, opposizione inclusa, è chiamata a render conto.
Troppo timida e acquiescente è stata la minoranza di fronte all’arroganza con cui veniva trattata e troppo flebile nelle sue contro- argomentazioni. Pochissime voci si sono levate per difendere in maniera chiara e forte una visione diversa dello stare insieme in un partito. Ad esempio, come è possibile che il segretario Martina non abbia risposto per le rime alla sciagurata chiusura operata da Renzi ( un semplice senatore….) di fronte alla prospettiva di dialogo avanzata dai 5 Stelle? Chiusura sciagurata non perché il Pd dovesse convolare a nozze con i pentastellati, ma semplicemente perché instaurando un confronto avrebbe spezzato il rapporto con la Lega. E oggi vediamo i risultati di quella scelta.
Ancora, come è possibile che il progetto di riforma del partito, redatto da Fabrizio Barca su incarico della direzione del partito stesso, sia stato gettato alle ortiche senza che nessuno intervenisse? Quanto sia basilare intervenire su questo punto lo ha dimostrato plasticamente l’assemblea del Pd di sabato: mille delegati chiamati per alzare una tessera e ascoltare qualche intervento, poi tutti a casa. Molto mobilitante, davvero. Infine come è possibile che, nonostante le molte intelligenze estranee alla cerchia renziana, non sia venuto un progetto, una visione alternativa al riformismo per ceti abbienti proposto dalla maggioranza?
Da una crisi così profonda, che certo riguarda tutte le forze progressiste in Europa (unico punto condivisibile del decalogo renziano di sabato), ci si aspetterebbe che un partito serio non solo esautorasse dalla plancia del comando i responsabili della disfatta, ma mettesse in campo anche le energie migliori per progettare il futuro. Le due azioni sono complementari perché senza l’una — una nuova classe dirigente — non si ha l’altra, cioè una nuova politica. E qui si vedrà se l’ex segretario tornerà all’intelligenza del 2012, quando accettò la sconfitta alle primarie e rilanciò nei tempi lunghi, oppure prenderà la scorciatoia di una nuova avventura personale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA