31/5/2018
POLITICA
Il personaggio
Gli 88 giorni del capo politico
Voleva fare il premier ma le sue mosse sono state spericolate e lui spesso smentito. Riducendone credibilità e ambizioni
SEBASTIANO MESSINA
Che fine ha fatto l’aria trionfale di Luigi Di Maio, il «candidato premier» che dopo le elezioni del 4 marzo ricordava ogni giorno la sua vittoria, «io ho preso undici milioni di voti»? Dopo 88 giorni di giravolte, marce indietro, smentite e colpi di scena, il suo sorriso spavaldo è rimasto lo stesso ma la sua parabola ormai somiglia al grafico del venerdì nero di Wall Street.
Perfino Matteo Salvini - il partner del “contratto” col quale era scoppiata quell’improvvisa passione politica che aveva ispirato un impertinente murales - ieri lo ha snobbato in pubblico, quando gli hanno riferito che lui riapriva all’ipotesi del governo gialloverde. E dal mercato di Pisa gli ha risposto, sprezzante, «Non è che siamo al mercato!».
La stella del giovane «capo politico» dei Cinquestelle improvvisamente non brilla più come prima, ormai sono in pochi a credere alla sua parola e le sue ultime spericolate acrobazie politiche – fallite una dopo l’altra – rendono inevitabile una domanda-chiave: può quest’uomo guidare un Paese, rappresentare l’Italia nel mondo e sedere al G7 con Trump, Merkel e Macron?
Domanda legittima, visto come sono andate le cose in questi 88 giorni. A cominciare dalla fine, cioè dal suo attacco frontale al Quirinale. Lo stesso presidente che lo aveva ascoltato, consigliato e persino guidato nell’insidioso labirinto di una crisi che appariva senza soluzione, lo stesso presidente del quale Di Maio diceva, dopo l’incarico a Conte, «è stato garante rispettoso della nostra Costituzione, e per questo lo ringraziamo», due giorni dopo – appena l’incaricato ha rinunciato – è diventato un traditore della Carta, un presidente da mettere subito in stato d’accusa, come Nixon e come Leone: «Impeachment!».
Perché? Perché si era rifiutato di firmare la nomina di Savona all’Economia. Esercitando quel potere costituzionale che lo stesso Di Maio gli aveva riconosciuto il 23 maggio: «I ministri li sceglie il presidente della Repubblica». Ma 48 ore dopo il leader pentastellato non la pensava più così, e lo considerava «un atto ignobile» così grave da chiedere al Parlamento di processare il capo dello Stato.
Eppure, passati altri due giorni, scoprendo che nessuno lo seguiva, l’ex candidato premier da lupo si è trasformato in agnello, ha annunciato in piazza che l’impeachment era «un’ipotesi non più sul tavolo», ha farfugliato «se abbiamo sbagliato qualcosa lo diciamo» e come se nulla fosse accaduto si è messo a disposizione del traditore-non-più-traditore: «Siamo pronti a collaborare con il presidente della Repubblica». Raramente si era vista, sull’intero pianeta, una doppia capriola così spericolata, e in così breve tempo.
Una figuraccia ai limiti del ridicolo, alla quale si è aggiunta la mortificante smentita che il giovane e ambiziosissimo successore di Grillo al timone dei Cinquestelle ha dovuto subire sulla ricostruzione del “caso Savona”. Con l’aria di uno che smaschera la slealtà di un presidente, lui ha raccontato a Barbara D’Urso un “retroscena segreto”, rivelando che al Quirinale lui aveva «fatto arrivare nomi alternativi a Savona, come Bagnai o Siri, ma non andavano bene perché nel loro passato avevano espresso posizioni critiche sull’Ue», e dunque non piacevano «alle agenzie di rating e alla Merkel». Retroscena assai gustoso, se non fosse stato smentito, al di là di ogni ragionevole dubbio, proprio dal Quirinale (e dai verbali delle consultazioni).
Poteva bastare, ma ieri si è scoperto che Di Maio non aveva detto la verità neanche sul professor Savona. «L’ho conosciuto dieci giorni fa aveva detto – insieme a Salvini.
E lui ci ha detto: faccio il ministro a patto che non si esca dall’euro».
Doveva essere la prova regina.
E invece è spuntato un video del 2016 – aveva ragione Casaleggio: la rete non perdona – nel quale lo stesso Savona raccontava candidamente: «Ho avuto un lungo colloquio con Di Maio e gli ho detto: qual è la tua risposta? Mi ha detto: “Niente, dobbiamo uscire dall’euro”.
Certo, sono il primo ad averlo detto...».
Loda il presidente e poi lo insulta. Spara una cannonata contro il Quirinale e poi chiede scusa. Rivela un colloquio che non è mai avvenuto e finge di non ricordare un incontro che invece c’è stato. Imbarazzante, per un aspirante statista. Per non parlare del tracciato zigzagante e disordinato della sua rotta tattica. «Abbiamo vinto, ora tocca a noi» annunciò la sera del 4 marzo, lasciando credere di avere un astutissimo piano segreto per conquistare Palazzo Chigi. E invece, dopo il flirt con Salvini sulle poltrone delle due Camere, ha cominciato a fare la spola tra Lega e Pd, rivendicando col suo sorriso da guaglione scaltro la politica dei due forni (che nella Prima Repubblica era un insulto) portandosi in tasca un “contratto di governo” con gli spazi per i nomi lasciati in bianco. E prima ha rotto con Salvini («Oggi dico ufficialmente che qualsiasi discorso con la Lega si chiude qui», 24 aprile) e poi con il Pd («Con loro non voglio mai più averci a che fare»).
Così è tornato con il leghista, riuscendo faticosamente a fargli firmare il contratto per un governo che però quello non vuole più fare. E allora Di Maio, che un mese fa avvertiva «O facciamo l’intesa col Pd o si torna al voto», il pomeriggio dell’altro ieri invocava «elezioni subito», ma la sera stessa diceva il contrario: «Una maggioranza c’è, fatelo partire quel governo». Votiamo immediatamente, dunque.
Oppure voi richiamate Conte e noi sostituiamo Savona.
Oppure si vota in autunno.
Oppure...