POLITICA
L’analisi
L’ascesa di Salvini
Pur con la metà dei voti i leghisti hanno egemonizzato i grillini sfruttando la loro paura di perdere l’occasione di governare
CLAUDIO TITO
Il Movimento 5Stelleè stato “salvinizzato”. Il prodotto finale di questa lunghissima crisi istituzionale è la subalternità del “grillismo” al leghismo. E la rinuncia di Giuseppe Conte al mandato ricevuto da Mattarella ne è stata la prova finale.
I risultati delle ultime elezioni politiche e il saliscendi delle trattative per formare il nuovo governo hanno dunque messo in mostra un singolare paradosso. Il partito di Salvini si è conquistato una centralità che va ben oltre i consensi ricevuti.
Per i suoi meriti ma anche per la debolezza di tutti gli altri, alleati e avversari. La sua radicalizzazione ha di fatto contagiato o paralizzato tutti i partiti che sono entrati in contatto con i lumbard. Prima e dopo il voto.
La prima vittima è stata Forza Italia. Silvio Berlusconi ha pagato lo scotto dell’alleanza dovendo cedere lo “scettro” al “Socio” leghista. La ribellione sociale e la rivolta istituzionale promossa da Salvini ha di fatto travolto il partito del Cavaliere.
Ma l’efficacia di una comunicazione fatta di eccessi e fake ha avuto la meglio soprattutto a urne chiuse.
Salvini si è subito presentato come uno dei “vincitori” delle elezioni. La Lega aveva compiuto di certo un balzo avanti ma in un sistema essenzialmente proporzionale ha raggiunto il 17 per cento. Il partito considerato perdente, il Pd, ha ricevuto il 18 per cento. Il centrodestra complessivamente ha ottenuto il 37 per cento ma per quella coalizione non si è trattato certo di un record: nel 2008 aveva toccato la soglia del 47 per cento. Eppure la formazione di Salvini è stata comunque definita quella prevalente in questa tornata elettorale.
Poi è arrivata la trattativa con il Movimento 5Stelle. Il leader del Carroccio rompe l’intesa con Berlusconi e Meloni e apre il percorso per un governo con i pentastellati.
I rapporti di forza sono invertiti.
Di Maio può contare sul 32 per cento dei voti. La leadership di questo patto dovrebbe toccare in teoria al grillino. Non solo per quanto riguarda la presidenza del consiglio, ma anche per il profilo programmatico dell’esecutivo.
Eppure il capo politico grillino inizia progressivamente a perdere la voce. Pur di fare il governo rinuncia a tutto quello che aveva sostenuto in campagna elettorale. E quel che accade nel cosiddetto “contratto” ne è la dimostrazione. Una piattaforma programmatica sostanzialmente di destra. Il predominio leghista accompagna tutte le pagine di quel documento. A parte una spruzzata di “green economy” e di ambientalismo, tutti i punti salienti sono dettati dal Carroccio. I pentastellati che in Parlamento si erano battuti per la stepchild adoption (l’adozione per le coppie gay) e per il riconoscimento dello Ius Soli, accettano di far sparire qualsiasi riferimento ai diritti civili. Gli obiettivi fondanti del patto si incardinano invece sulla Flat tax, sulla estensione senza limiti della legittima difesa, sugli immigrati e sulla politica estera anti-euro e filorussa.
Le escandescenze contro l’Unione europea nascondono così i rapporti che i grillini ma soprattutto la Lega intrattiene con Mosca e Putin. Basta leggere il testo dell’accordo tra Russia Unita, il Partito del presidente russo, e il Carroccio per coglierne la profondità. Così le ingerenze di Bruxelles sono inaccettabili, quelle di Mosca sono benvenute.
Il doppio forno di Di Maio quindi si spegne, si accende quello di Salvini. Il segretario lumbard stringe l’alleanza con il Movimento 5Stelle ma si affanna a confermare che la coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia è ancora viva.
Ecco il paradosso: il 32 per cento dei grillini viene di fatto ibernato dal 17 per cento dei leghisti. La “salvinizzazione” inizia in quel momento. Anche perché molti dei rappresentanti pentastellati vivono questa legislatura come prima e ultima occasione. “Ora o mai più”, ripetono da ottanta giorni. Sono convinti che alla guida del Paese possono andarci solo in queste circostanze. Non solo. Di Maio avverte il fiato sul collo di Alessandro di Battista che dall’esterno non manca di lanciare i suoi missili. Come ha fatto, ad esempio, contro il presidente della Camera, Roberto Fico, e il caso della colf pagata in nero. I vertici M5S vengono così irretiti dal movimentismo del “neo-senatur”.
Stessa tattica, stesso risultato sulla composizione della squadra di governo. Salvini chiede che non sia Di Maio il premier e neanche uno degli eletti grillini. Serve un “terzo nome”. Il Movimento si piega, sempre nella speranza di cogliere il momento: “Ora o mai più”. Accettano di indicare Giuseppe Conte, un candidato presidente del Consiglio politicamente sbiadito. Con una caratteristica, però, ben chiara: la guida di fatto dell’esecutivo sarebbe ricaduta sui due leader di partito.
Poi si arriva al “caso Savona”. Sul nome dell’economista, Salvini punta tutta la sua posta. Di Maio nel corso della trattativa fa sapere, anche al Quirinale, di essere disponibile a cambiare cavallo per l’Economia. Anche di accettare lo “spacchettamento” del ministero. «Un’alternativa c’è sempre», dice il capo politico penta stellato fino a sabato sera.
Ma anche stavolta la voce di Salvini è stata più forte di quella dell’alleato. Forse pure a causa dei sondaggi che assegnano una crescita di consensi alla Lega e una flessione al M5S. E per effetto del “doppio forno” che i lumbard possono riaprire con il centrodestra.
L’ultima capriola, però, potrebbe essere fatta nelle prossime settimane. L’asse populista è pronto a diventare un unico soggetto politico. La sovrapposizione parziale ma consistente dei due elettorati spinge verso una coalizione, non solo di governo ma elettorale.
M5S e Lega potrebbero diventare un partito unico. O una alleanza stabile che stabilizzi il fronte sovranista e antieuropeo. Se allora la “corsa” tra Di Maio e Di Battista è già iniziata, lo è anche la voglia di Salvini di “salvinizzare” definitivamente il Movimento.
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STEFANO CAVICCHI/ LAPRESSE
Matteo Salvini ieri in un comizio a Terni nelle stesse ore in cui al Quirinale si consumava il fallimento del tentativo di Conte