COMMENTI
TIMOTHY GARTON ASH
TUTTE le scuole di giornalismo del mondo dovrebbero mostrare agli studenti il video in cui un cronista della televisione di Stato polacca chiede pimpante a un tizio di mezza età con un berretto bianco e rosso (i colori della bandiera polacca) cosa significhi per lui partecipare alla manifestazione indetta a Varsavia per celebrare la festa dell’indipendenza nazionale l’11 novembre. «Significa togliere di mano il potere ... agli ebrei !», è la risposta. Dato che in Polonia è al governo il partito nazionalista populista di destra Legge e Giustizia (PiS), quali sarebbero questi ebrei al potere? Il leader del partito, Jaroslaw Kaczynski? La premier, Beata Szydlo? Oppure qualcuno che è al potere altrove, tipo Donald Trump o Theresa May, o Mark Zuckerberg? O gli ebrei su Marte?
Perdendo con disinvoltura la rara opportunità di intervistare un antisemita pronto ad aprirsi davanti alle telecamere il giornalista, imbarazzato, si rivolge a una donna accanto, ponendole più o meno la stessa domanda. Lei si mostra concorde con il precedente intervistato e si dice orgogliosa di essere in piazza tra altri connazionali. Allora il giornalista rivolto alla telecamera esclama euforico: «Questo è l’orgoglio di essere polacchi!».
E uno così sarebbe un giornalista? In realtà è un pennivendolo che lavora per una rete pubblica, Tvp Info, ormai svilita a canale di propaganda del PiS, e si attiene rigorosamente alla linea del partito. Mi concentro sul giornalista invece che sull’antisemita perché di fronte a una realtà globale fatta di idee e di slogan di estrema destra, a Charlottesville come a Varsavia, a Dresda come a Mosca, il problema vero è uno: come reagire?
Innanzitutto bisogna capire cosa sta succedendo. In ogni caso siamo in presenza di uno straordinario insieme di elementi locali e transnazionali. Questa “marcia dell’indipendenza” dell’11 novembre, ad esempio, si tiene da qualche anno a Varsavia, organizzata da gruppi di destra del luogo ed è man mano cresciuta, toccando i 60.000 partecipanti. Alla manifestazione, organizzata quest’anno sotto lo slogan “Noi vogliam dio” ha partecipato una sorta di “black bloc” di estremisti fascisti e radicali di destra, con lo striscione “Europa bianca fratellanza di nazioni”. Al centro faceva bella mostra di sé una croce celtica, un simbolo che in Polonia si vede raramente, ma altrove è di appannaggio dei suprematisti bianchi. Su un altro striscione stava scritto “Deus Vult” Dio lo vuole, il grido di battaglia della prima crociata anch’esso gettonato dall’estrema destra transnazionale. Alla marcia hanno partecipato i leader di altri paesi, tra cui l’Italia, la Gran Bretagna, l’Ungheria, e la Slovacchia.
Mentre in passato i nazionalisti tendevano ad essere nazionali, esiste oggi una rete internazionale di xenofobi di estrema destra. Dovremmo chiamarla la sesta internazionale (dopo cinque alla sinistra, una va alla destra)? Questi modernissimi reazionari fanno abile uso dei social media per diffondere i loro subdoli messaggi. Un recente rapporto dell’Institute for Strategic Dialogue mostra che alcuni degli hashtag più popolari a favore del partito nazionalista populista Alternative für Deutschland (AfD) durante le lezioni tedesche di settembre sono stati diffusi pesantemente dagli attivisti di estrema destra. Con AfD nel ruolo di secondo maggior partito di opposizione, la Germania è esempio ulteriore dei pericolosi nessi tra nazionalismo conservatore ed estremismo di destra. Ma non vale anche per l’America di Trump? Per non parlare del linguaggio usato in un tweet dell’account ufficiale dell’organizzazione pro Brexit Leave Eu, che definisce “un cancro all’interno del loro partito e traditori del loro paese” i 15 parlamentari conservatori contrari all’emendamento che inserisce la data di uscita dall’Ue nella relativa legge quadro.
All’interno del fronte popolare da creare contro questa diffusione a tappeto di linguaggi e di idee di estrema destra spiccano tre categorie: le piattaforme online, le figure pubbliche e i nostri vicini. Da parte delle piattaforme serve innanzitutto più trasparenza. Bisogna che Twitter, Facebook e simili si accorgano con maggiore anticipo che le loro piattaforme sono sfruttate dai russi e da altri malintenzionati al fine di influenzare il referendum sulla Brexit o le elezioni nazionali, e condividano con noi utenti i loro riscontri. Le figure pubbliche devono stigmatizzare ogni sconfinamento dal dibattito politico legittimo. Il governo polacco ne ha appena dato dimostrazione contraria nel momento in cui vari ministri hanno sminuito la realtà dei fatti parlando di “incidenti” o “provocazioni” nell’ambito di una manifestazione “altrimenti bellissima” (a salvare l’onore della Polonia ha pensato il presidente Duda con la sua condanna). Un ulteriore esempio negativo viene dal vice presidente Usa Mike Pence, che difende qualsiasi indifendibile affermazione di Trump come se fosse la volontà di Dio. Gli onesti sostenitori della Brexit dovrebbero prendere le distanze da discorsi velenosi farciti di espressioni come cancro e tradimento.
Ma non sono solo i politici ad aver fallito. In Polonia è stato vergognoso il silenzio dei vertici della chiesa cattolica, che non si sono espressi neppure in difesa di quel “Noi vogliam Dio” distorto a fini politici. Poi vengono i giornalisti, che non hanno certo il compito di far prediche sul politicamente corretto, bensì di far cronaca, di investigare e di raccontare. Anche gli insegnanti, i calciatori, le star del cinema e della televisione hanno una voce ascoltata. E poi ci siamo tu ed io, perché ormai tutti noi viviamo gomito a gomito con persone sensibili a queste opinioni estreme — se non fisicamente, di certo a livello virtuale. Ogni volta che ci imbattiamo in un certo tipo di idee, al bar, sul campo di calcio o su Facebook dobbiamo farci sentire, controbattere. Non deve per forza essere una polemica astiosa, si può usare anche l’arma dell’ironia, un grande antidoto al fanatismo. In questo spirito vorrei proporre un nuovo premio per il cattivo giornalismo, intitolandolo al sedicente giornalista di TVP-Info.
Traduzione di Emilia Benghi
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