Prima
LO SCENARIO
MARC LAZAR
TRE settimane dopo il referendum catalano, i lombardi e i veneti sono stati chiamati a pronunciarsi per via referendaria sull’autonomia delle loro Regioni. Alcuni commentatori frettolosi accostano questi due eventi e vi vedono la prova di un grave processo di disgregamento degli Stati-nazione, che minaccia la coesione dell’Unione europea. La realtà, come sempre, si rivela più complessa: da un lato esistono differenze considerevoli fra quello che succede nelle due penisole, dall’altro queste votazioni attestano l’esistenza di evoluzioni politiche reali in certi Paesi europei.
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CHE il referendum catalano e quelli di Lombardia e Veneto siano difficilmente comparabili è un’evidenza: il primo è incostituzionale, e i catalani che l’hanno promosso vogliono ottenere l’indipendenza; i secondi sono organizzati dai dirigenti della Lega Nord per ottenere una maggiore autonomia, come previsto dall’articolo 116, terzo capoverso, della Costituzione italiana: d’altronde, in Lombardia, il quesito sottoposto agli elettori faceva esplicitamente riferimento al rispetto dell’unità nazionale. I lombardi e i veneti, con sfumature diverse, hanno voluto questo referendum consultivo per beneficiare di una legittimazione popolare nelle trattative con lo Stato centrale. E l’hanno ottenuta, grazie alla partecipazione (soprattutto in Veneto) e alla larga vittoria del sì.
Anche le modalità d’azione sono differenti: i sostenitori dei referendum in Lombardia e in Veneto non organizzano manifestazioni di piazza (cosa che in passato la Lega Nord faceva), mentre gli indipendentisti catalani utilizzano tutto il repertorio di azioni possibile, con il rischio che la situazione degeneri, tanto più che Madrid risponde con durezza. Infine, intervengono dei fattori storici: la Catalogna ha una storia specifica, una forte identità linguistica e culturale, una personalità reale, elementi sottolineati a profusione dagli indipendentisti e al tempo stesso trasformati in risorse politiche contro Madrid. All’inverso, la Padania è stata inventata da Umberto Bossi e dai suoi amici al momento della creazione della Lega Nord, nel 1991, facendo leva sul contrasto storico che esiste fra il Nord e il Sud dell’Italia e giocando su particolarismi locali, molto più pronunciati in Veneto che in Lombardia.
Insomma, a un primo sguardo non c’è niente in comune tra la Catalogna e le due Regioni del Nord Italia. Tuttavia, questi referendum esprimono un’aspirazione irreprimibile all’autonomia, o addirittura all’indipendenza, che si ritrova anche in altre regioni d’Europa, per esempio nelle Fiandre e in Scozia. Nella maggior parte dei casi, con l’eccezione della Scozia, che patisce la caduta del prezzo del petrolio e un disavanzo di bilancio elevato ma rimane un’economia prospera, si tratta di regioni ricche, con una popolazione agiata, che aspirano a ridurre la solidarietà nazionale in Italia o addirittura a emanciparsi come in Catalogna. Questi regionalismi che si ergono a nazionalismi non hanno nulla a che vedere con quello che era emerso negli anni ‘70 e ‘80 in Francia, per esempio: in Bretagna, nei Paesi Baschi, in Corsica, in Occitania, si trattava all’epoca di movimenti periferici che contestavano il centralismo parigino, si scagliavano contro il giacobinismo e intendevano ritrovare le “radici” culturali e linguistiche schiacciate, a detta loro, dalla Repubblica, che aveva praticato nei loro confronti un “genocidio culturale”. Certi sociologi li erigevano a esempi di nuovi movimenti socialdemocratici, innovatori e inventivi.
I regionalismi di oggi esprimono un malessere democratico. Fanno leva sulla sfiducia generalizzata verso i responsabili politici, il sentimento d’impotenza che trasmette la politica nazionale, l’impressione che l’Europa sia lontana e quindi la volontà di trovare un’istanza decisionale che sia più vicina ai cittadini. Questi movimenti mostrano un atteggiamento ambivalente nei confronti dell’Europa. Da un lato si dichiarano europei, perché hanno un’economia molto aperta. Dal punto di vista politico, la Lega Nord si divide tra sovranisti, fra cui Salvini, che pure ormai esitano a parlare di un’uscita dall’euro, e pragmatici, che criticano la burocrazia e il deficit democratico dell’Unione europea, ma vogliono restarci. Quanto ai separatisti catalani, si illudono quando pensano che la loro indipendenza potrebbe essere sostenuta da Bruxelles. Dall’altro lato, gli uni e gli altri sono tentati da un ripiegamento sulle loro realtà locali e regionali e i loro particolarismi. Danno prova di quello che il politologo francese Dominique Reynié ha chiamato «populismo patrimoniale », che consiste nel difendere il proprio patrimonio materiale, le proprie ricchezze quindi, e un patrimonio culturale immaginario, fondato su un insieme di tradizioni viste come ancestrali e inamovibili.
La forte partecipazione ai referendum in Veneto e (in misura minore) in Lombardia, con l’ampia vittoria del sì, e gli avvenimenti estremamente preoccupanti in corso in Catalogna illustrano dunque la profonda e duplice crisi della rappresentanza, sia a livello nazionale che a livello europeo. Risolvere questa crisi diventa un imperativo, se non si vuole assistere a un rafforzamento di queste richieste di dissociazione.
( Traduzione di Fabio Galimberti)
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