SPETTACOLI
Da oggi in edicola con “Repubblica” tutti i dischi della band che ha trascinato la musica in una nuova dimensione
Le visioni della generazione che reinterpretava il mondo
GINO CASTALDO
PIÙ passa il tempo più la storia dei Pink Floyd cresce di statura, va oltre i confini di una sequenza di dischi, per quanto belli e importanti possano essere, supera di slancio le orbite consuete, sembra diventare un monumento imperituro alla più grande utopia coltivata dalla musica popolare del secolo scorso: reinterpretare il mondo, se possibile cambiarlo, o quanto meno contribuire a renderlo più bello, più accettabile, più degno di essere vissuto. Forse questa idea non ce l’avevano così chiara quando hanno iniziato, cinquant’anni fa, con quelle prime saettanti visioni impresse dalla geniale follia di Syd Barrett, ma non è escluso che, in fondo ai suoi velenosi trip psichedelici, il giovane artista possa aver intravisto qualcosa del genere. E poi i tempi erano quelli, infuocati, avventurosi, ci si sentiva supportati da un’intera generazione che correva veloce intorno al cambiamento. A cos’altro pensava Barrett quando inventò il titolo del primo atto: The piper at the gates of dawn? Quei cancelli dell’alba sembravano una finestra da aprire su un mondo del tutto nuovo. Nel 1967 non era difficile imbattersi in ragazzi dall’aria trasognata che vedevano la realtà in controluce, con altri occhi. I Pink Floyd ebbero il merito di fornire a questa generazione di giovani esploratori, un’adeguata colonna sonora, scandita da dischi memorabili, colonne sonore sottili e devianti come More, album sempre più ambiziosi, sempre più tormentati dal ricordo del genio di Syd Barrett che avevano abbandonato poco dopo l’uscita di quel primo disco, finché arrivarono a superare ogni barriera e ogni limite stilistico realizzando Atom earth mother, Meddle, opere, visioni complesse, lunghe suite che allargavano i confini di quello che fino a quel momento erano stati i limiti della musica popolare.
Certo, viste con gli occhi di oggi sembrano preistoria, vestigia di civiltà antiche che non esistono più. Ma è anche vero che la musica di oggi parla ancora quella lingua, ne è figlia diretta, anche se impoverita, le tracce sono ovunque si tenti di allestire affascinanti costruzioni sonore, soprattutto se pensiamo alla perfezione sonora e narrativa di The dark side of the moon, che ancora oggi risuona in tutta la sua audacia creativa. Oppure Wish you were here, con quel meraviglioso e insuperato tributo alla follia artistica che è
Shine on you crazy diamond, e poi le allegorie orwelliane di Animals, e The wall, la cui modernità è testimoniata dall’incredibile successo di pubblico riscosso dalla riedizione che negli ultimi anni è stata portata in giro da Roger Waters. Messi in fila, uno dopo l’altro, i dischi dei Pink Floyd raccontano una delle più grandi avventure culturali dei tempi moderni, la storia di un gruppo di ragazzi cresciuti nel pieno della rivoluzione degli anni Sessanta, amici che si sono amati, e poi si sono separati, si sono odiati, hanno combattuto per conquistare la leadership del progetto creativo, ma che comunque sono stati capaci di raccogliere quel messaggio lanciato dai grandi precursori, da Bob Dylan e dai Beatles, e rilanciarlo in una dimensione ancora più spericolata.
Ad ascoltare bene i loro dischi, soprattutto quelli della fase più matura, si comprende come la posta in gioco sia inevitabilmente molto alta, perché quelle musiche intendono offrirci uno sguardo, un modo di percepire la realtà. Suoni, slittamenti armonici, cadenze ritmiche, voci, effetti sonori, rumori, tutto quello che entra nei pezzi dei Pink Floyd sembra volerci strappare dall’aderenza alla realtà e trascinarci verso una dimensione più onirica, come fosse l’unico modo per garantirci al contrario una visione più onesta e veritiera. C’era una volta un tempo in cui qualcuno pensava che un disco potesse essere tutto questo, e anche molto di più.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Messi in fila gli album della band inglese raccontano una delle più grandi avventure culturali dei tempi moderni dagli anni Sessanta a oggi
FOTO: ©RB/REDFERNS/GETTY