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Così Tabucchi cantò Macao terra ibrida cino-portoghese

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IL RACCONTO

ANTONIO TABUCCHI
Croupier e missionari: il reportage inedito nella colonia asiatica
«E poi vede, ormai anche l’oppio non si trova più. Ora lo usano molto per dopare i cani da corsa». Posa la valigia per terra, ci si siede sopra e dice: «Sono stanco, mi devo fumare una sigaretta». Il portabagagli che si è impossessato della mia valigia è un vecchietto cinese dall’aria molto dignitosa, con una targhetta sul taschino della camicia che reca scritto Chong Pei Pereira, e sotto l’equivalente in cantonese. Cerco inutilmente di convincerlo che è meglio che la valigia la porti io, tanto poi lo pago ugualmente. Ma lui dice: «No, grazie, è il mio mestiere». Parla un portoghese fluente, appena con le erre velate che sono tipiche dei cinesi. Fuma la sigaretta con tutta calma, mentre l’ultimo taxi si allontana. «Li lasci andare », dice, «guidano male, prenda il torpedone». E poi ritorna al discorso di prima, cosicché stento a seguirlo.
SEGUE ALLE PAGINE 46 E 47
‹‹Comunque, le do l’indirizzo di una casa sicura, ma è una casa privata, bisogna pagare prima una percentuale››. Faccio cenno che non m’interessa. ‹‹E allora le do un cane vincente››, dice. Macao vi può ricevere anche così, com’è successo a me. Sono stato invitato a Macao a frugare in un archivio e a fare delle lezioni. Nell’archivio dovrei trovare tracce di Camilo Pessanha, un grande poeta che visse a lungo a Macao e vi morì nel 1926. Le mie lezioni sono di letteratura e riguardano invece Fernando Pessoa, che l’Istituto Culturale di Macao celebra con una serie di manifestazioni che comprendono mostre, seminari e conferenze. Sono dunque due poeti che mi hanno chiamato qui, o le loro ombre. Di una di queste ombre devo cercarla, l’ombra: poche tracce che forse il tempo, l’incuria o l’indifferenza hanno cancellato.
Ma, letteratura a parte, visto che sono qui da quindici giorni, forse posso tentare di raccontare quello che ho capito di Macao.
“Affittata” dai mandarini di Canton ai portoghesi nel 1500 e trasformata rapidamente da questi ultimi da villaggio di pescatori in fiorente città sulla rotta commerciale tra Goa e il Giappone, Macao è oggi una curiosa città. L’amministrazione portoghese e lo statuto di zona franca ne fanno un luogo privilegiato, e un ibrido quasi incredibile. Il primo strato della città, da un punto di vista architettonico, è tipicamente portoghese. Chiese, palazzetti, fortezze e porticati stanno ancora lì, intatti o restaurati, a indicare la secolare presenza lusitana. Su questo strato si è sovrimpressa una facciata cinese, dato che il novantacinque per cento della popolazione è cinese: sono templi, negozi, abitazioni, ristoranti, mercati e giardinetti. Su tutto, infine, domina incontrastata la marca che la nostra epoca ha impresso in ogni grande città: gli enormi grattacieli di vetro e di acciaio, il cemento armato dei prefabbricati, le abitazioni- alveare. […] L’Hotel Lisboa è un grattacielo rotondo degli anni cinquanta, con una fisionomia per la quale il cattivo gusto è una definizione assolutamente insufficiente. Di un colore giallo ocra, con le finestre incorniciate da sbuffi di gesso bianco, una gigantesca pigna dorata sul cocuzzolo e festoni di luci lungo le colonne, lascia semplicemente strabiliati. L’interno è congruo con la facciata: pavimenti di moquette verde smeraldo, pareti laccate di rosso, molti specchi e dorature, nichel a profusione, scale mobili e porte girevoli. L’Hotel Lisboa ospita, oltre a un albergo con seicento camere, un’infinità di ristoranti, di
cafeterias, di negozi e di saloni di bellezza. E principalmente il casinò. Perché la principale attività di Macao è il gioco, e l’Hotel Lisboa contiene il maggiore casinò, anzi, il più “elegante”. Tutti i fine settimana migliaia di appassionati arrivano da Hong Kong, da Tokyo, dalle Filippine e dalla stessa Cina Popolare per sedersi di fronte ai tavoli da gioco. Quasi tutti i croupiers sono donne, graziose cinesi vestite sobriamente e dall’aria efficiente e distaccata: mentre robusti giovanotti in giacca bianca ritirano ogni tanto dalle casse principali il denaro che i giocatori hanno lasciato e che è stato prontamente impacchettato in mazzette. Il trasporto è fatto su carrelli a ruote come quelli per le vivande, sui quali vengono stesi, forse per pudore, drappi azzurri frangiati con la sigla del casinò. Un ascensore metallico li conduce verso una capiente camera blindata.
Ma il casinò più affascinante di Macao, è quello “non elegante”, un enorme edificio di legno galleggiante ancorato nel Porto Interior, carico di stucchi e di dragoni cinesi, dove si riversa a giocare la popolazione meno abbiente, la gente comune, l’impiegato, il negoziante, e spesso anche gli umili venditori del mercato del quartiere di Patane. E mentre il Lisboa offre i convenzionali giochi occidentali co- me la roulette e il baccarà, i giochi del Macau Palace sono esclusivamente cinesi. Una guida pubblicata in inglese, ad uso del turista ( Macau Gambling Book) tenta di spiegare succintamente giochi misteriosi come il Fan-Tan giocato con perline di madreperla che vengono sottratte quattro a quattro, lasciando possibilità di puntare sul numero delle rimanenti, o il Pai Kao, un infernale domino o il Mah-Jong, nel quale i pezzi vengono collegati fra loro secondo una logica che mi pare sfugga anche a chi possiede grande disponibilità per logiche diverse dalla propria. [...] Coloane è un’isoletta collegata a Macao da un viadotto di un sei o sette chilometri. È un’isola minuscola, rocciosa, dall’aspetto inospitale. In questo luogo si fermarono i pirati per tutto l’Ottocento sottoponendo ad angherie gli abitanti, per lo più pescatori, che cominciarono a rifugiarsi a Macao lasciando l’isola pressoché deserta. Una stele ricorda la vittoria definitiva dei portoghesi sui pirati nel 1910, ma la data è stata coniata ad uso delle iscrizioni lapidarie perché i pirati continuarono le loro scorribande per tutti gli anni Trenta, come ci racconta padre Mario Acquistapace, un missionario della chiesetta di São Francisco Xavier che sorge nel villaggio di Coloane. Padre Mario è un vecchietto dall’aria rosea, è di Lodi, vive in Cina da cinquant’anni, parla perfettamente il pechinese e il cantonese, va molto fiero dell’osso del gomito di San Francesco Saverio conservato in una teca della cappella. Poi mi accompagna a visitare l’Opera Pia, dove sono ricoverati vecchi indigenti e dove funzionano delle scuole modello.[…] Dall’altra parte dell’isola c’è un orrendo cementificio a picco sul mare, e poco distante immerso fra palmizi bassi, il lebbrosario di Coloane. Sono cinque o sei costruzioni degli anni quaranta, gialle e arancioni, con piccole verande, dominate da una chiesa moderna col tetto spiovente come le chiese di montagna. Padre Gaetano Nicosia mi aspetta sul portone. È un uomo asciutto dall’aspetto gioviale, con un viso sorridente. Sono nato a Catania nel 1915, dice, sono qui dal ‘35.
Passeggiamo nell’orto e nel giardino dove i malati lavorano. Sono tutti guariti, dice padre Nicosia, ma i parenti non li rivogliono. E poi molti di loro sono qui da venti o trent’anni, sono rimasti soli, non saprebbero dove andare, preferiscono restare alla missione.
E lei, gli chiedo, perché è venuto qui, padre Nicosia?
Lui mi guarda. È un posto come un altro per fare delle cose, la gente ha bisogno là, qui, dappertutto. E poi mi mostra un Cristo in bronzo sulla facciata della chiesa, è un pezzo molto bello anche se convenzionale, si indovina una grande mano. Provi a dire di chi è?, mi chiede. Faccio cenno di no con la testa. È di Francesco Messina, dice, me lo ha regalato lui. Mi ha detto: questa opera la offro ai suoi malati.
Parliamo ancora, seduti su una panchina. Vicino a noi un uomo con le mani rovinate dal male fa del suo meglio per adoperare un arnese da lavoro.
E lei perché è venuto qui? mi chiede a sua volta. Per vedere, dico io, solo per vedere. Mi accompagna fino alla motocicletta che ho affittato a Macao. Prima di salutarmi mi dice: la ringrazio per essere venuto a vedere. Vedere è molto importante. Gli replico che vedere non è proprio niente, di fronte ad altre cose. E con un gesto un po’ vago indico l’ospedale alle sue spalle. Oh no, dice lui, anche vedere è già molto importante, stia sicuro.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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IL CONVEGNO Domani e domenica si svolge a Milano, presso la Fondazione Feltrinelli ( Sala polifunzionale Viale Pasubio 5) un convegno dedicato allo scrittore scomparso nel 2012. Dopo un saluto di Carlo Feltrinelli, intervengono, fra gli altri, Stefano Benni, Davide Benati, Paolo Mauri, Ranieri Polese, Paolo Di Paolo, Alessandro Mari, Paolo Cognetti, Bernard Comment, Jorge Herralde, Norman Manea e Andrea Bajani
IL DISEGNO
Antonio Tabucchi in un ritratto di Tullio Pericoli In alto, una via di Macao. A destra, lo scrittore ripreso durante il suo viaggio a Macao nel 1985

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