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CULTURA
A vent’anni dalla morte di Diana Spencer, il ritratto di un “mito incompiuto” secondo Hilary Mantel
Lady D
C’era una volta una principessa finita nella fiaba sbagliata
HILARY MANTEL
Non esiste più in quanto se stessa, esiste solo come ciò che abbiamo fatto di lei. La sua storia è arcaica e transpersonale. «È come», ha detto lo psicoterapeuta Warren Colman, «se Diana trasmettesse su una frequenza archetipica». La principessa che abbiamo inventato per colmare un vuoto aveva poco a che fare con una qualunque persona reale. Le scuole private frequentate da Diana le impiantarono scarsi interessi culturali, e nessuna percezione della loro mancanza. Non passò mai la maturità. Ma era capace di scrivere una lettera garbata con la sua calligrafia tondeggiante, e dal momento che non aveva necessità di guadagnarsi da vivere, che importanza aveva?
Per sua stessa ammissione, Diana non era brillante. Non era nemmeno particolarmente buona, nel senso di avere un’affidabile inclinazione alla virtù; era donchisciottescamente amorevole, non costantemente caritatevole; mutevole, non affidabile; dedita all’infatuazione, preda dell’impulso. Non è una critica. Il mito non rigetta nessun materiale: richiede soltanto un cuore di cera, poi lavora sottotraccia per plasmare il suo soggetto, modellarlo per adattarlo al fato.
Quando la gente definisce Diana una “principessa delle fiabe”, ha in mente le versioni edulcorate? Le fiabe non sono storie di vestiti vaporosi e gratificazione dell’ego: sono storie di infanticidi, cannibalismo, inedia, deformità, creature umane disperate rinchiuse nelle sembianze di animali o incatenate da incantesimi, o murate vive tra i rovi. Il bambino chiuso nella gabbia viene nutrito di latte dalla strega per intenerirne le carni, viene tastato per saggiarne la morbidezza, e se c’è un «vissero per sempre felici e contenti», di solito è scritto sulla pelle di qualcuno.
Ci vuole tanto know-how e sudore dietro le quinte per trasformare Cenerentola da sguattera a reginetta di bellezza. Le fiabe non descrivono il giorno dopo il matrimonio, quando la giovane moglie persa nei corridoi della reggia vede il suo riflesso frammentarsi, e gira in tondo in preda al panico cercando uno specchio che la riconosca. Ma l’esperienza di Diana come figlia di una famiglia di possidenti non l’aveva preparata per Buckingham Palace, non più di quanto lo Schönbrunn avesse preparato l’adolescente Maria Antonietta per Versailles. Diana si lamentò che nessuno la aiutava o si rendeva conto delle sue esigenze. Lady Fermoy, la nonna di Diana, aveva espresso dubbi prima del matrimonio: «Tesoro, devi capire che il loro senso dell’umorismo e il loro stile di vita sono diversi». La caduta di tono è straordinaria. «Stai in guardia», dicono gli anziani mentre fanno cenno al drago e incatenano la vergine alla roccia muschiata.
Diana senza dubbio era realmente timida, e di certo inesperta e immatura: un recipiente vuoto, che poteva portare dentro di sé non solo eredi, ma le proiezioni degli altri. Dopo il matrimonio aveva un potere che non aveva ricercato o immaginato. Si aspettava l’adulazione, ma di genere privato: di essere adorata dal suo principe, rispettata e riverita dai suoi sudditi. Non poteva immaginare quanto insaziabile sarebbe stato il pubblico, una volta che i media e le sue stesse tattiche avevano fatto esplodere la domanda di Diana. Nella sua cerchia non c’erano solidi testimoni della natura della realtà, solo persone che, in virtù della loro vocazione, inventavano le cose, esaltavano i sentimenti, sfruttavano i bisogni infantili della nazione, facevano coincidere la storia con la storia di una manciata di famiglie titolate. Aveva la percezione di essere adatta per essere principessa, e inadatta per qualsiasi altro ruolo. Ma non aveva nessuna percezione della storia reale in cui era ormai incasellata, o della potenza delle forze che la circondavano. All’inizio, diceva, aveva paura delle folle che si riunivano per adorarla. Poi cominciò a nutrirsene.
Quando Diana diventò la donna più famosa del mondo, non stupisce che i membri meno popolari della Ditta fossero stizziti. La regina stessa era stata una bellezza, ma forse considerava volgare essere troppo interessati al proprio aspetto. A Diana veniva permesso di interessarsi quasi solo a quello. I suoi rapporti con la stampa e i fotografi non erano innocenti. Le immagini dovevano essere curate attentamente: il suo lato migliore, per così dire. Inquadrarla da certe angolazioni non era accettabile. E quando l’obiettivo crea un’immagine, può sfocarsi, sfuggire via, confondersi. Insicura dei suoi confini, la principessa si riduceva alla fame, come se la sua vigorosa corporatura potesse rifilarsi fino alle proporzioni eteree delle modelle e ballerine che la affascinavano.
Nel 1992, Carlo e Diana si separarono. Nel 1996, il matrimonio defunto venne tumulato. Non era questo che era stato negoziato, nei tredici incontri. Il principe riprese la sua vecchia trama, con la donna che avrebbe dovuto sposare fin dal principio. Un’altra storia aveva cominciato a raccontare Diana. Senza più vincoli, aprì le porte della sua identità e tutte le principesse morte fluttuarono dentro, quelle deposte ed esiliate, decapitate e fucilate. Con loro vennero gli idoli dello schermo e le bellezze viziate: la Monroe nuda e morta, la Garbo che voleva essere sola. Mentre diventiamo adulti, miriamo a essere “padroni di noi”, non controllati da altri. Ma come dice la romanziera Ivy Compton Bur- nett, «le persone non hanno nessuna possibilità di diventare adulte. Una vita non è lunga abbastanza ».Lei visitava i malati, ed era a un passo dal rivendicare il tocco taumaturgico che la tradizione impartisce agli unti del Signore: se fosse diventata regina, si sarebbe sicuramente messa a resuscitare i morti. La leggenda insiste che mostrò al mondo che non c’erano rischi a stringere la mano a un malato di Aids. Perfino nei poco illuminati giorni del 1987, solo i fanatici e gli ignoranti pensavano che un contatto occasionale potesse infettarli, ma ogni gesto di Diana valeva anni di educazione della cittadinanza e milioni di finanziamenti. Andava in giro con Madre Teresa, e lo faceva indossando abiti di alta moda; si muoveva verso i sofferenti invece di tirarsi indietro.
«Quando le persone stanno morendo», diceva, «sono molto più aperte, più vulnerabili, molto più reali delle altre persone, e io lo apprezzo». Tra i deboli recuperava la sua forza, trasformata da svenevole fanciullina schifiltosa ad amazzone che avanza verso la battaglia. Sapeva che le malattie più terribili non l’avrebbero uccisa. Come Giovanna d’Arco, protetta dalla sua stessa magia, avanzava incolume. Quando faceva campagna contro le mine, attraversava terreni esplosivi. Sul suo giubbotto antiproiettile era scritto “The Halo Trust”. La sua testa bionda luccicava come un invito caduto, sollecitando un fulmine a ciel sereno.
Il divorzio fu sgradevole. È difficile estrarre una verità equilibrata dai bisticci dei sicofanti delle due parti. Diana vinse la Guerra dei Galles perché era implacabile, e aveva più gambe. Il suo ritiro dalla vita pubblica, teatralmente annunciato, sembrava indicare che sarebbe emersa come un nuovo modello. Forse questa trasformazione era in corso, ma non riuscì a completarsi, finché la completò la morte.
All’epoca della sua intervista al programma della Bbc Panorama, alla fine del 1995, Diana aveva preso l’abitudine di parlare di se stessa in terza persona. Con aria da sfinge, senza sorridere e con un trucco da mater dolorosa, si presentava al tempo stesso come una vittima e come una persona di grande potere, e anche se parlava in modo piuttosto semplice lo faceva con l’aria misteriosa di una costretta a comunicare per enigmi.
Quando si riferiva a se stessa come una «regina di cuori», faceva gelare il sangue. Sembrava che stesse leggendo il suo necrologio.
Quando Diana morì, una crepa si aprì in una fiala di dolore, e ne uscì fuori un oceano. Una nazione salì sulle scialuppe. Folle enormi si riunirono per mettere in comune il loro sgomento e il loro smarrimento. Essendo una creazione collettiva, Diana era anche una proprietà collettiva. Il cordoglio di massa offendeva la polizia del gusto. Era pacchiano, era kitsch: i fiori marciti come manto funebre, i cuori imbottiti di plastica rossa, gli orsetti e le bambole, e le poesie maldestre. Ma tutte queste cose testimoniavano lo sforzo di espressione di individui poveri di spirito e di immaginazione, che liberavano il loro dolore represso piangendo per una donna che non conoscevano. Il termine “isteria di massa” era una facile denigrazione di un fenomeno che i commentatori non riuscivano a ricondurre all’interno dei loro quadri analitici. Non vedevano il lavoro attivo che facevano le folle. Il lutto è lavoro. Non è semplicemente essere tristi: è dare un nome al proprio dolore; è testimoniare il dolore di altri, disegnare la forma della perdita. È naturale e necessario, e senza di esso non c’è guarigione.
È irrilevante obiettare che la Diana viva non aveva alcuna somiglianza con la Diana morta. Le folle non si ingannavano su quello che avevano perso. Non stavano piangendo qualcosa di perfetto, ma qualcosa di incompiuto. Qualcuno diceva che forse Diana era incinta al momento della sua morte. Qualcosa di sorprendente interesse si stava evolvendo sotto la sua pelle, un altro modo di vivere? La domanda restò in sospeso. La morte liberava dubbi e paure sotterranee. Perfino quelli che sprezzano le teorie del complotto chiedevano: che cos’è esattamente un incidente? Perché l’ultima notte della sua vita Diana era scesa sotto terra per raggiungere la sua destinazione? Non aveva bisogno di andare in quella direzione. Ma non lo scelse: era guidata. I suoi dei la volevano: era stata fuori troppo a lungo.
Dalla sua prima apparizione in pubblico, con il sole che brillava attraverso la gonna, Diana è stata sfruttata, per soldi, per brivido, per ridere. Non era una santa, o una ribelle che necessita della nostra assistenza postuma: era una giovane donna di limitate risorse personali che pensava di nuotare al sole tra i delfini quando invece stava affondando tra gli squali. Ma come fenomeno, era più grande di tutti noi: capace di autorinnovarsi come le stagioni, sempre desiderata e mai posseduta. Era la Dea Bianca evocata da Robert Graves, l’essere slanciato con il naso a becco e gli occhi azzurri luccicanti; l’essere che lui descrive come una mutaforma, una vergine, ma anche una megera, una strega, una sirena, una faina. Era la cerva bianca di Thomas Wyatt che si dilegua nell’oscurità della foresta.
Nella trasmissione televisiva del mese scorso, il principe William ha detto: «Non lo faremo ancora. Non parleremo più apertamente o pubblicamente di lei». Quando il suo corpo spezzato è stato deposto in un’isola privata, è stato un tentativo consapevole, e forse superfluo, di incorporarla nel mito nazionale. È come John Keats, ma più fotogenica: «Qui giace una il cui nome fu scritto sull’acqua».
Se Diana è presente oggi, è in ciò che scorre e muta, in ciò che sorge e tramonta, in ciò che non può essere fissato, misurato, confinato, non è vincolato dal tempo e rende perciò obsoleti gli anniversari: e forse, quindi, non è morta affatto, ma scivolata nel tunnel dell’Alma per riemergere nell’autunno del 1997, col colletto tirato su, i piedi lunghi come lame che intagliano la pioggia.
© Guardian News & Media Ldt 2017 Traduzione di Fabio Galimberti
IERI E OGGI
Due scatti con gli stessi protagonisti e lo stesso scenario, a vent’anni di distanza. A sinistra, una foto datata 5 settembre 1997: William e Harry rendono omaggio alla madre guardando il mare di messaggi di cordoglio davanti a Kensington Palace. A destra, i due figli di Diana ieri, davanti allo stesso palazzo, mentre guardano i messaggi dedicati all’anniversario della morte della madre
Il tempo della regalità dovrebbe scorrere lentamente e secondo le sue leggi: strisciando, come il crisma che scende dal calice del vescovo. Ma vent’anni normali sono trascorsi al piccolo trotto, ed è possibile avere una conversazione da adulti con qualcuno che non era nato quando Diana morì. Il suo vedovo si è da tempo risposato. Il suo figlio più grande, che un tempo le assomigliava tanto, dà segnali di sviluppare l’aria ponderosa di Filippo, il nonno. Diana dovrebbe essere superata, come le piume di struzzo: una di quelle donne regali o quasi regali, come Mary di Teck o Wallis Simpson o l’ultima zarina, con le foto che virano al seppia e le ossa sbiancate come perle. Invece spettegoliamo su di lei come se fosse appena uscita dalla stanza. Ancora discutiamo di come abbia fatto una
ventenne dalla faccia dolce e gli occhi da cerbiatta a sposare, nel 1981, un membro della casa reale. Era una montatura fin dall’inizio? Sapeva che il suo fidanzato amava un’altra donna? Era una complice o era innocente, la vergine inghirlandata da sacrificare sull’altare?
Ma i reali esistono in un luogo che è oltre la verifica dei fatti, in un reame mistico con regole che individualmente può capitare che non riescano a scorgere; Diana consultava dei sensitivi per scoprire che stava succedendo. L’eterna richiesta ai reali di tagliare i costi e di avere “i piedi per terra” è futile. Non sono persone come noi con cappelli più eleganti. Esistono in una dimensione estranea all’utilità, esistono in virtù di nostri bisogni incontrollati e irrazionali. Non si può scrivere o parlare della principessa senza spiegare e abbellire il suo mito.

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