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GUIDO SCORZA
VITTORIO Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo re d’Italia e, a suo dire, “erede al trono” non ha diritto a chiedere che la stampa dimentichi e faccia dimenticare che in una notte di trentanove anni fa impugnò una carabina dopo un furto: in una sparatoria dalla dinamica mai chiarita, un ragazzo di 19 anni perse la vita. E non basta a garantirgli l’agognato oblio la circostanza che i giudici — quelli francesi che si occuparono della vicenda — lo assolsero dall’accusa di omicidio volontario.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in una sentenza nella quale ha confermato l’assoluzione già pronunciata dalla Corte di Appello di Milano— per Maurizio Crosetti e per l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro— dall’accusa di diffamazione e violazione del diritto all’oblio per aver ricordato, sulle pagine di questo giornale, nell’ottobre del 2007, che Vittorio Emanuele è anche colui “che usò con disinvoltura il fucile all’isola di Cavallo, uccidendo un uomo”.
Il diritto all’oblio del singolo, scrivono gli Ermellini nella sentenza, deve sempre confrontarsi con il diritto della collettività a essere informata soprattutto quando — come nel caso di specie — si discute di un personaggio pubblico. La circostanza che un fatto non abbia rilevanza penale, peraltro, aggiungono i giudici, non è sufficiente a escludere che esso possa rilevare sotto il profilo etico e sociale.
Una cosa è ciò che accade nei tribunali e ciò che decidono i giudici e una cosa diversa è ciò che interessa — ed è giusto interessi — l’opinione pubblica perché appartiene alla cronaca del presente e merita di entrare a far parte della storia di domani. Nessuno — e men che meno un personaggio tanto famoso da essere nei libri di storia — può esigere che un giornalista si astenga dal raccontare ciò che è realmente accaduto se di pubblico interesse. Principi solo apparentemente semplici e lineari sempre più di frequente messi in discussione — specie online — in nome di un pericoloso fraintendimento su termini e portata del cosiddetto diritto all’oblio che si vorrebbe riconoscesse a chiunque il diritto di chiedere e ottenere una sorta di amnesia collettiva, capace di privarci del diritto alla memoria, alla storia e, più in generale, all’informazione.
E si tratta di una deriva che in Rete assume contorni più preoccupanti specie da quando, nel maggio 2014, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha stabilito che chiunque possa richiedere direttamente al gestore di un motore di ricerca, senza neppure passare per un giudice, di disindicizzare qualsiasi contenuto che lo riguardi garantendosi così l’oblio eterno di qualsiasi fatto del proprio passato, del quale non ami condividere con il mondo il ricordo.
Corporation — come quelle che gestiscono i grandi motori di ricerca online — che rispondono prima che alla legge ai propri azionisti, elette, per sentenza, arbitri della memoria collettiva e incaricate di giudicare cosa meriti di passare alla storia e cosa possa invece esser lasciato scivolare nel buco nero dell’oblio.
Un errore di prospettiva che dal 2014 a oggi ha fatto sì che, in tutta Europa, solo Google abbia condannato all’oblio — impossibile dire quando a torto e quando a ragione — su richiesta degli interessati, quasi 800 mila contenuti pubblicati online contro i circa 2 milioni dei quali si è sentita richiedere la disindicizzazione.
Guai, naturalmente, a negare che in talune circostanza il diritto all’oblio sia sacrosanto, che il singolo non meriti di passare alla storia per ciò che non è e di essere ricordato come un criminale se invece è stato assolto. Ma una cosa è esigere che di ciascuno di noi si offra sempre e comunque un’immagine completa, aggiornata, puntuale con le luci e le ombre che inesorabilmente si susseguono nell’esistenza umana, una cosa diversa è riconoscere il diritto a che il mondo dimentichi le nostre ombre, ricordandoci solo per le nostre luci.
Così facendo si rischia di falsare la storia, di lasciarla scrivere anziché a giornalisti di oggi e storiografi di domani, direttamente ai suoi protagonisti. Il risultato sarebbe scontato e perverso: i nostri posteri leggerebbero una storia popolata solo di eroi, personaggi positivi e virtuosi. L’identità personale, probabilmente l’elemento più prezioso del nostro essere uomini, non dovrebbe essere garantita riconoscendo al singolo il diritto a veder sfilare talune tessere dal mosaico della propria esistenza ma, al contrario, riconoscendo a ciascuno il diritto a veder aggiungere e affiancare alle tessere che ci ritraggono a tinte più fosche, quelle che ci ritraggono a colori pastello.
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