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Henry James

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CULTURA
Una mostra alla Morgan Library di New York racconta i legami fortissimi tra il grande scrittore e il mondo dell’arte. In un intreccio tra vita personale e letteratura

Il pittore fallito che imparò a dipingere con le parole
HOLLAND COTTER
«Non c’è nulla al mondo che ascolti così tante sciocchezze come un quadro in un museo», disse il poeta Wallace Stevens, citando una fonte francese del XIX secolo, in una conferenza al Museum of Modern Art di New York nel 1951. Ma il legame tra arte e parole persiste nel tempo. Poeti e romanzieri tradizionalmente hanno arrotondato lo stipendio come critici d’arte. E alcuni hanno trovato questo multitasking benefico per tutti i mezzi espressivi. Un genio che cominciò come pittore, fece il critico d’arte e produsse oltre 20 opere letterarie importanti è il protagonista della mostra Henry James and the American Painting (Henry James e la pittura americana), in corso alla Biblioteca- museo Morgan di New York. Organizzata dallo scrittore Colm Tóibín e da Declan Kiely, direttore del dipartimento manoscritti letterari e storici della Morgan, la mostra è un groviglio interdisciplinare di pitture, disegni, sculture, fotografie, fogli stampati e scritti a mano.
James nacque a New York nel 1843, in una famiglia di aristocratici giramondo. I viaggi in Europa lo misero in contatto con l’arte fin dalla più tenera età. Durante la sua adolescenza a Newport, nel Rhode Island, conobbe l’artista americano John La Farge, chelo incoraggiò a dipingere. Ma James era un dilettante, e lo capì ben presto. E dopo aver esplorato un’altra opzione – studi di giurisprudenza, nientemeno – prese in mano la penna e non la abbandonò più. Però continuò a essere assorbito dall’arte. Alla fine degli anni ’60 e durante tutti gli anni ’70 dell’Ottocento, mentre girava tra Londra, Parigi e Roma, fece il critico d’arte per conto di diverse riviste americane. All’inizio erano le recensioni di un principiante smanioso di essere al centro dell’attenzione. E prendeva pure delle cantonate: le sue stroncature dell’Impressionismo e di James McNeill Whistler ci dicono quanto fosse legato alle convenzioni. (in seguitorivide le sue opinioni sugli uni e sull’altro; con Whistler diventarono amici.) Più costruttivamente, vedeva le immagini dipinte non come cose fisse, da manuale, più o meno ben eseguite, ma come testi da leggere, metaforicamente, emotivamente, storicamente. In una recensione del 1877 scriveva: «Per essere interessante, un quadro, secondo me, deve avere una relazione con la vita, oltre che con la pittura». Otto anni dopo, aggiungeva che l’arte, lungi dall’essere statica, «vive della discussione, dell’esperimento, della curiosità, della varietà di tentativi, dello scambio di opinioni e del confronto di punti di vista». E se l’idea dell’immagine plasmabile, ricca di sfumature e chiaroscuri – il misterioso carteggio Aspern, la coppa d’oro, la sfuggente figura nel tappeto persiano – riveste un ruolo centrale nella narrativa di James, altrettanto si può dire delle vite degli artisti e scrittori che ha conosciuto.
La mostra della Morgan ce ne presenta alcuni. La Farge, di otto anni più grande di James e suo mentore e amico, è uno di loro: James incorporò alcune sfaccettature della sua personalità in Roderick Hudson, il giovane scultore del romanzo omonimo. In alcuni casi, il mondo dell’arte forniva a James l’embrione di trame bell’e pronte. Conosceva, fin dai giorni di Newport, Francis Boott, un vedovo compositore dilettante, e la sua figlia-artista Elizabe- th, o Lizzie. Ricchi e cosmopoliti, i Boott passavano gran parte del loro tempo in Italia (James soggiornò da loro) ed erano inseparabili fino alla comparsa del pittore americano Frank Duveneck, che diventò l’insegnante d’arte di Lizzie e alla fine, con gran dispiacere di Francis, suo marito. Variazioni su questa storia sono nei romanzi di James – Washington Square, per esempio – in cui la rottura di un legame padre-figlia gioca un ruolo cruciale.
In questi libri, James svolge la funzione di un disegnatore-regista onnisciente e ritrattista intimo, tratteggiando con epica precisione composizioni complesse e spingendo avanti i personaggi per primi piani espressivamente impietosi. La mostra della Morgan anima in modo analogo la vita dei modelli di James. In una fotografia in studio degli anni ’60 dell’Ottocento, un padre ancora giovane e una figlia si guardano come una coppia da poco fidanzata. All’inizio degli anni ’80 risale una natura morta di Lizzie Boott, forse eseguita sotto gli occhi di Duveneck. In una foto di gruppo scattata dopo il matrimonio di Lizzie, nel 1886, la figlia incombe consolatoria sopra il padre, mentre il marito sta sullo sfondo. Una storia raccontata interamente per immagini.
Nonostante il suo profondo investimento estetico in queste persone, James si trovava di gran lunga più a suo agio con un altro giovane pittore, l’americano (ma nato in Europa) John Singer Sargent. Tutti e due sceglievano come tema delle loro opere l’élite della Belle époque; e tutti e due erano omosessuali. Per decenni i biografi si sono mossi in punta di piedi sulla questione. La mostra della Morgan, nel caso di James, la affronta con quella che potremmo definire una discrezione esplicita, presentandoci le lettere di Hendrik Christian Andersen, un giovane scultore per cui il cinquantaseienne James perse la testa.
Il legame tra James e Sargent sembra essere stato meno problematico. Nel 1913, i suoi 70 anni, un gruppo di amici commissionò a Sargent il suo ritratto. L’opera, in prestito dalla National Portrait Gallery di Londra, è esposta alla Morgan. Il volto corpulento di James, con le labbra ancora sensuali e gli occhi che valutano lo spettatore con freddezza – con stanchezza? Con rammarico? Con arroganza? – irradiano una moderna ambiguità. Al tempo stesso, la sua stazza monumentale, il suo colletto inamidato, il suo orologio da taschino con la catena d’oro e il suo anello papale ingioiellato lo presentano come un residuato patrizio di un’epoca pretenziosa che la prima guerra mondiale presto avrebbe fatto del suo meglio per sgonfiare.
Lui adorò quel ritratto – «Sargent al suo meglio e il povero vecchio H. J. non al suo peggio», scrisse – ma qualcuno lo odiò. Quando il quadro fu esposto alla Royal Academy of Art, una suffragetta di nome Mary Wood lo attaccò con una mannaia da macellaio, squarciandolo in tre punti mentre urlava «voti per le donne!». James scrisse a un amico della «malvagia vecchiaccia» che «mi ha colpito tre volte prima che il tomahawk venisse fermato. Mi sento naturalmente alquanto scotennato e sfigurato». Fu sollevato quando gli dissero che gli squarci potevano essere riparati. Ma probabilmente non aveva colto altre cose, più astratte ma interessanti, che aveva fatto Mary Wood. Leggendo il suo ritratto come una metafora politica lo aveva, in pratica, collegato direttamente alla vita. E aveva pronunciato parole sicuramente fra le meno stupide che il quadro abbia mai sentito.
© 2017 The New York Times Traduzione di Fabio Galimberti
©RIPRODUZIONE RISERVATA
LE IMMAGINI / 1
Qui accanto il ritratto di Henry James dipinto da John Singer Sargent nel 1913
FOTO: © GETTY IMAGES
LE IMMAGINI /2
James McNeill Whistler, Arrangement in Black and Brown: The Fur Jacket ( 1877)

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