L’america di trump
Il ministro più in bilico. Congresso, sì alle sanzioni anti-russe Trump ipotizza l’uso della grazia per chi è coinvolto nello scandalo
ANTONELLO GUERRERA
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK.
Quanto durerà Jeff Sessions? Il cerchio si stringe intorno al ministro della giustizia americano, scaricato anche da Donald Trump. L’ultima rivelazione è del Washington Post, che ha avuto accesso ad alcune intercettazioni di intelligence nei confronti di Sergej Kislyak, l’ambasciatore russo in America. Al telefono, il diplomatico parla con i suoi superiori al Cremlino. E rivela che, sì, durante i suoi incontri con Sessions si è discusso di politica estera e si sono sondate le intenzioni verso la Russia dell’allora candidato alla Casa Bianca Trump: «Abbiamo prove certe», assicurano gli 007 al quotidiano della capitale.
Dunque, come Donald junior e altri del cerchio magico del presidente, Session sulla Russia ha mentito, e più volte. Il ministro della Giustizia inizialmente aveva assicurato di non aver avuto alcun incontro con diplomatici russi. Gli scoop dei giornali lo hanno smentito. Allora, dopo molte amnesie, Sessions ha ammesso, precisando che aveva partecipato in qualità di senatore e che quindi non si era parlato di Trump. Falso anche questo. C’è di più: per gli 007 gli incontri tra Kislyak e Sessions di aprile, giugno e settembre 2016 sarebbero avvenuti proprio al culmine della campagna sotterranea di Mosca per influenzare le elezioni americane.
Insomma, una colonna dell’amministrazione Trump sta tremando pericolosamente. Qualche giorno fa Trump ha umiliato pubblicamente Sessions, dicendo che a posteriori non lo avrebbe mai scelto come ministro visto che si è ricusato spontaneamente dall’inchiesta Russiagate per i suoi torbidi contatti con Mosca. Ma dopo le dimissioni di venerdì del suo portavoce Spicer, la nomina di Scaramucci a capo della comunicazione e il conseguente caos alla Casa Bianca, a Trump conviene, almeno in questo momento, sopprimere politicamente Sessions?
No, ma il presidente ruggisce all’alba, a colpi di tweet: contro il Washington Post per «le fughe di notizie» del caso Sessions e il New York Times, contro Hillary Clinton, contro Comey, in difesa del figlio Donald Jr. e infine per l’abolizione della riforma sanitaria di Obama. Trump è una furia, ma il Russiagate pare una melma inesorabile: ieri il Congresso, con una maggioranza così trasversale da sfidare anche un possibile veto di Trump, ha posto le basi per nuove sanzioni contro la Russia, nonostante il “njet” del presidente. La falla della controversa riunione tra Trump jr., il genero Kushner e l’ex capo della campagna elettorale Manafort con i russi per infangare Hillary è ancora aperta. Due giorni fa il dipartimento del Tesoro è stato paradossalmente costretto a multare per due milioni la multinazionale del petrolio Exxon per aver aggirato le sanzioni anti-Mosca quando a capo c’era Rex Tillerson, cioè l’attuale Segretario di Stato. La morsa si stringe ed ecco che Trump su Twitter agita l’arma atomica: «Ho tutto il diritto di esercitare il perdono presidenziale», cioè una grazia nei confronti, si teme, di sodali, familiari coinvolti e anche di se stesso. Si spingerà a tanto il presidente per salvare la baracca? Sessions trema, intanto. E con lui, secondo vari commentatori e giuristi come Noah Feldman di Bloomberg, anche la democrazia americana.
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