CULTURA
Se gli anni Novanta del grunge erano all’insegna della depressione, questa è l’era dell’angoscia Che grazie ai social media e all’incertezza diffusa si trasforma da patologia a fenomeno culturale
ALEX WILLIAMS
Lo scorso inverno Sarah Fader, una trentasettenne di Brooklyn consulente in social media, affetta da un disturbo d’ansia generalizzato, ha inviato un sms a un’amica in Oregon a proposito di un’imminente visita, e vedendo che non gli arrivava subito una risposta ha scritto su Twitter ai suoi 16mila e più follower: «Se non ricevo risposta dalla mia amica per un giorno penso che non vuole più essere mia amica». Il tweet era accompagnato dall’hashtag # ThisIsWhatAnxietyFeelsLike. Dopo poco, migliaia di persone hanno cominciato a fornire i loro esempi sullo stesso tema: alcuni sono stati ritwittati migliaia di volte. Sarah Fader aveva toccato un nervo scoperto.
Sono passati settant’anni da quando il poeta Auden pubblicò L’età dell’ansia, una raffigurazione in versi sulla condizione dell’uomo moderno. E ora sembra che siamo troppo nervosi anche per metterci seduti a leggere una cosa così lunga (o come direbbero su internet, tl: dr, too long, don’t read). L’ansia è diventata il nostro gergo quotidiano, la linfa vitale che pulsa dentro di noi: non solo su Twitter (il medium più ansiogeno, con i suoi costanti aggiornamenti), ma anche in diari di blogger, confessioni di celebrità (tu quoque, Beyoncé?), uno spettacolo di successo a Broadway ( Dear Evan Hansen), una nuova rivista ( Anxy, un periodico pubblicato a Berkeley), serie televisive di tendenza ( Maniac di Netflix firmata Cary Fukunaga, l’incensato regista di True Detective). Con due nuovi volumi che analizzano questa condizione ( On Edge: A Journey Through Anxiety, di Andrea
Petersen, e Hi, Anxiety, di Kat Kinsman), seguiti ai recenti bestseller di Scott Stossel ( My Age of Anxiety) e Daniel Smith ( Monkey Mind), le autobiografie di ansiosi sono diventate un sottogenere letterario che fa concorrenza alle autobiografie di depressi, dalla solida tradizione. Anche se gli epidemiologi considerano entrambi i disturbi come condizioni mediche, l’ansia comincia a sembrare pure una condizione sociologica: un’esperienza culturale comune. Come la depressione negli anni ’90, sembra che siamo entrati in una nuova Era dell’Ansia: monitoriamo il nostro battito cardiaco, strusciamo incessantemente il dito sui display dei nostri iPhone, riempiamo gli studi di meditazione nel tentativo di calmare i nostri pensieri frenetici.
Secondo i dati dell’Istituto nazionale di salute mentale statunitense, circa il 38 per cento delle ragazze fra i 13 e i 17 anni, e il 26 per cento dei ragazzi, hanno un disturbo legato all’ansia. Intanto, il numero di ricerche con la parola “ansia” su internet negli ultimi 5 anni è quasi raddoppiato, secondo Google Trends (la linea di tendenza per “depressione” è rimasta relativamente stabile.) Per Kay Wright, il presentatore del podcast politico
The United States of Anxiety trasmesso da Wnyc, che ha debuttato lo scorso autunno, è fin troppo facile spiegare queste cifre. «Siamo in guerra dal 2003, abbiamo visto due recessioni », dice Wright. «Già solo la vita digitale è stata un cambiamento colossale. La vita lavorativa è cambiata. Tutto quello che consideriamo normale si trasforma».
L’Urban Dictionary, il dizionario collettivo online delle espressioni gergali in lingua inglese, definisce uno slacker come «una persona che pur essendo intelligente non ha voglia di far nulla», e sicuramente è una definizione che coglie efficacemente il torpore in jeans strappati dei ragazzi degli anni ’90. Il loro sentimento era incarnato dal corrucciato e ironico Troy (Ethan Hawke) di Giovani carini e disoccupati, che asseriva che «la vita è una grande lotteria di inutili tragedie e una serie di scampati pericoli», ragion per cui bisogna godere delle piccole cose: un Quarter Pounder Cheese da McDonald’s, un pacchetto di Camel fumato tutto di fila. Per questi giovani degli anni ’90, Lithium dei Nirvana un inno, il caffè era una costante e Prozac Nation, il libro di Elizabeth Wurtzel che parla di una laureata di Harvard figlia di genitori divorziati e vestita come se dovesse suonare il basso nelle Hole, era una bibbia. L’equivalente millennial della Wurtzel naturalmente è Lena Dunham. Affetta da un’angoscia debilitante fin da quando aveva 4 anni, la creatrice, sceneggiatrice e protagonista dell’ansiocentrica serie Girls, ricorda di aver «saltato 74 giorni di lezione al secondo anno delle superiori» perché aveva paura a uscire di casa.
Se l’ansia è la melodia del momento, il presidente Trump ne è il maestro indiscusso. A differenza del suo predecessore Barack Obama, cultore di una sommessa ironia e cresciuto sulle dolci spiagge hawaiane, il nuovo inquilino della Casa Bianca è un agitatore logorroico di New York, una città di otto milioni e mezzo di persone e, pare, tre milioni di strizzacervelli. Ma se Trump è diventato presidente perché gli elettori erano angosciati, come vorrebbe far credere un recente articolo della rivista The Atlantic, altri elettori sono diventati più angosciati perché lui è diventato presidente. In effetti Trump è il primo politico nella storia mondiale che usa come modalità di comunicazione preferita il tweet delle 3 del mattino, prova di un corpo insonne, di una mente irrequieta, di una personalità apprensiva.
«Viviamo in un Paese dove non riusciamo a trovarci d’accordo nemmeno su un insieme di dati di fatto elementari», dice Dan Harris, inviato del telegiornale della Abc e presentatore di Nightline, che ha trovato una carriera collaterale come guru della lotta all’ansia con la pubblicazione, nel 2014, del suo bestseller
Vivere + sereni: come ridurre lo stress e aumentare la felicità senza cambiare tutto nella tua vita. Harris ora offre un’app di meditazione, una newsletter settimanale via mail e un podcast che è stato scaricato circa 3,5 milioni di volte l’anno scorso. «Nella nostra cultura sempre accesa, controllare il cellulare è l’ultima cosa che fai prima di andare a letto e la prima cosa che fai se ti svegli nel cuore della notte per andare al bagno», dice Harris.
Notifiche insistenti. Titoli apocalittici. Tweet rancorosi. Innumerevoli studi hanno trovato collegamenti tra la cultura di internet e l’ansia. Ma se i social media possono produrre ansia, possono anche aiutare ad allentarla. L’etica da “qui non abbiamo segreti” del dibattito online ha contribuito a portare l’angoscia allo scoperto e ha consentito a chi ne soffre di unirsi in un contesto virtuale di terapia di gruppo. Di qui il successo di campagne come # ThisIsWhatAnxietyFeelsLike, che ha contribuito a trasformare l’ansia – che colpisce circa 40 milioni di americani adulti – in una sorta di movimento per i diritti.
E non ci dimentichiamo che siamo sopravvissuti a epoche di ansia diffusa, in passato, senza un sistema di supporto digitale 24 ore su 24. Gli anni ’70 di Woody Allen non erano l’apice della nevrosi, con le loro sessioni di analisi e gruppi di incontro cinque giorni la settimana? E che dire degli anni ’50, con le canzoni che insegnavano cosa fare in caso di attacco nucleare e i bunker antiatomici nel giardino di casa? Detto questo, gli americani del 2017 possono sostenere con buone ragioni che nelle Olimpiadi dell’Ansia la medaglia d’oro spetta a loro.
© 2017 The New York Times ( Traduzione di Fabio Galimberti)
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È protagonista di show di Broadway, serie tv Netflix, libri di successo. E l’hashtag #ThisIsWhatAnxietyFeelsLike spopola
ILLUSTRAZIONE DI GABRIELLA GIANDELLI