COMMENTI
MICHELE AINIS
TUTTO sommato dovremmo essergli grati. Sì, l’orfano di Mussolini, quel signore un po’ accaldato che ha trasformato il suo stabilimento balneare in una propaggine della Repubblica di Salò, sta rendendo un servizio alla democrazia italiana. Perché la costringe a interrogarsi sulla domanda centrale delle democrazie: si devono tollerare gli intolleranti? È giusto applicare i principi liberali a chi li rovescerebbe come un guanto, se ottenesse le chiavi del potere? E dove si situa il limite oltre il quale ogni parola diventa lo sparo d’un fucile?
Per abbozzare una risposta, mettiamo anzitutto in fila i fatti. Scarni, però fin troppo eloquenti. Il titolare d’una spiaggia ricevuta in concessione dallo Stato (dunque un luogo aperto al pubblico, non una dimora privata) la inghirlanda di cartelli che inneggiano ai forni crematori o promettono manganellate sui denti per chi sgarra. S’esibisce in saluti romani. Sfoggia cimeli del ventennio. Arringa folle in costume dal megafono, dichiarando che «la democrazia fa schifo», aggiungendo che «i tossici andrebbero sterminati», distribuendo slogan fascisti a squarciagola. Repubblica denunzia il caso, intervengono questura e prefettura, scatta la denuncia per apologia di fascismo. Più precisamente, al signore in questione viene contestata la violazione della legge Scelba (n. 645 del 1952), forse anche della legge Mancino (n. 205 del 1993), che punisce l’odio razziale.
Tuttavia i fili normativi di questa vicenda si dipanano dalla Costituzione, non dalla legge. E la Costituzione italiana disegna un triangolo con due regole e un’eccezione. Prima regola: libertà di parola (articolo 21). Seconda regola: libertà di partito (articolo 49). Eccezione: divieto di ricostituire il vecchio partito fascista (XII disposizione finale). Un divieto che trae origine dalla fresca memoria dei costituenti, oltre che dagli impegni assunti dallo Stato italiano con il Trattato di pace. E che fa il paio con il divieto di restaurare la monarchia sabauda, a sua volta prescritto dall’articolo 139.
Insomma, nel dopoguerra i nostri padri fondatori ci impedirono di tornare indietro, non di guardare avanti. E costruirono il futuro all’insegna della libertà, non del divieto. Quest’ultimo rappresenta pertanto un’eccezione, ma l’eccezione è sempre «di stretta interpretazione », non va mai estesa al di là dei casi che direttamente vi ricadono. Tant’è che la XII disposizione ha ricevuto un’applicazione assai prudente: l’unica circostanza in cui ne venne fatto uso colpì il movimento neofascista Ordine Nuovo, sciolto per decreto da Taviani nel 1973. Mentre dal canto loro sia la Consulta, sia la Cassazione, hanno interpretato in senso restrittivo l’apologia di fascismo: c’è reato solo se quest’ultima si colleghi all’organizzazione di un nuovo partito fascista, altrimenti resta lecito perfino il saluto romano. Non a caso un disegno di legge firmato da Emanuele Fiano propone adesso un giro di vite, rendendo illeciti gesti e simboli fascisti, al di là di qualunque nesso con la rifondazione delle camicie nere.
Ma è giusto opporre il bastone della legge a chi manifesti sentimenti antidemocratici? Negli Usa risponderebbero di no. Lì la Corte suprema, sul volgere degli anni Ottanta del secolo passato, dichiarò non punibile chi brucia la bandiera. Mentre negli anni Settanta un altro celebre caso giudiziario sancì il diritto del partito neonazista americano di tenere un corteo dimostrativo a Skokie, un sobborgo di Chicago abitato da 40mila ebrei, in gran parte reduci dai campi di concentramento.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, infatti, la libertà di parola costituisce l’architrave su cui poggia l’ordine sociale. E quest’ultima serve a tutelare chi è diverso, discorde, dissenziente, non certo chi canta nel coro. Perché la maggioranza non ha bisogno di tutele, può difendersi da sé. Sono le minoranze, sono le espressioni eretiche o controcorrente, quelle su cui s’apre la garanzia costituzionale. E d’altronde un atteggiamento tollerante reca vantaggi alla stessa maggioranza, anzi alla società nel suo complesso. In primo luogo perché ci educa all’autocontrollo, a dominare le nostre reazioni emotive verso tutto quanto ci è sgradito, esorcizzando in ultimo la tendenza verso l’intolleranza. E in secondo luogo per la ragione illustrata da Stuart Mill: anche quando l’altrui opinione è falsa, essa ci procura nondimeno la più chiara percezione della verità, al cospettodell’errore. Però la tolleranza non può tradursi in licenza. Altro è la nostalgia del bel tempo perduto, altro il rimpianto di quando c’era Lui; tutt’altra cosa è invece l’incitamento alla violenza contro i tossici o gli omosessuali. In quest’ultima evenienza la parola diventa azione, corpo contundente. Come scrisse il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, la libertà d’espressione non può certo proteggere chi gridi senza motivo «al fuoco » in un teatro affollato, scatenando il panico. Giacché non è vero che le parole siano sempre innocue: talvolta uccidono, e l’omicidio è reato.
michele. ainis@ uniroma3. it
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“ La tolleranza dà vantaggi a tutti ma non può tradursi in licenza alla violenza”