L’AMERICA DI TRUMP
Lo scenario.
L’insofferenza di Trump verso Mueller dimostra l’importanza del nuovo scoop. Ma manca ancora un tassello: la prova della collusione con Putin
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK.
Fu Vladimir Putin in persona a ordinare e a dirigere l’inaudita ingerenza nel voto presidenziale americano. Con una direttiva esplicita ai suoi servizi e agli hacker informatici russi: «Sconfiggere o almeno danneggiare Hillary Clinton, aiutare l’elezione di Donald Trump». È il contenuto di un rapporto della Cia consegnato a Barack Obama nell’agosto 2016. Lo rivela il Washington Post in un nuovo scoop sul Russiagate. Viene documentato per la prima volta un intervento del presidente russo con istruzioni dettagliate. Eppure ci vollero cinque mesi perché Obama varasse una ritorsione, modesta peraltro, l’espulsione di 35 diplomatici russi e la chiusura di due palazzi da loro usati. Poco per quello che il reportage definisce «il crimine politico del secolo, un attacco alla democrazia americana destabilizzante, senza precedenti, e coronato dal successo ». Eppure l’allora capo dello staff di Obama, Denis McDonough, sostiene che il presidente giudicò subito la vicenda come «un attacco al cuore del nostro sistema ».
Le novità in questa puntata del Russiagate sono due: il coinvolgimento personale di Putin; il pentimento ex-post dei vertici dell’Amministrazione passata per non avere inflitto alla Russia un castigo adeguato. Su quest’ultimo punto è comprensibile il rammarico: forse delle sanzioni più immediate e pesanti, e una denuncia più forte presso l’opinione pubblica, avrebbero potuto cambiare le sorti del voto accentuando tra gli elettori l’allarme per il legame Putin-Trump. Ma non c’è mistero sul perché Obama non agì con più determinazione o enfasi drammatica: non credeva che Trump potesse vincere. La Casa Bianca leggeva gli stessi sondaggi che uscivano sui giornali.
Più delicato è capire quanto il rapporto della Cia possa influire sull’inchiesta in corso, quella che l’ex capo dell’Fbi Robert Mueller dovrà concludere con un suo rapporto al Dipartimento di Giustizia e al Congresso. Quanto più appare evidente l’intento di Putin di cambiare il corso dell’elezione americana, tanto più questo potrebbe influire sull’andamento dell’inchiesta e sulla reazione del Congresso. Non a caso Trump ha ripreso a dare segni d’insofferenza verso l’inchiesta e verso i suoi stessi collaboratori che ne sono i referenti, a cominciare dagli attuali vertici del Dipartimento di Giustizia. Non passa giorno senza qualche voce di siluramento di alti dirigenti della Giustizia, o dello stesso Mueller (che è stato pur sempre nominato da questa Amministrazione, anche se ha fama di persona integerrima e indipendente).
Allo stato attuale per inguaiare davvero Trump manca ancora un anello essenziale: la prova che ci sia stata una chiara collusione tra lui e Putin. Un conto è dimostrare che il presidente russo agì per farlo vincere: questo è un fatto infamante per molti americani anche dentro il partito repubblicano; però il presidente russo fa quel che vuole. Né basta dimostrare che Trump aveva fatto qualche affare a Mosca, e che nel suo entourage c’erano personaggi ricattabili o ricattati per i loro rapporti con la Russia (da Michael Flynn a Paul Manafort, fino forse al genero Jared Kushner). Anche queste sono cose infamanti. Manca però il reato di tradimento, o qualcosa di simile: che verrà dimostrato solo se e quando usciranno prove che le due parti (Trump e Putin) si misero d’accordo sull’operazione anti-Hillary.
La piega che sta prendendo il Russiagate però è un’altra. Come ha osservato David Brooks sul New York Times, assomiglia al caso Whitewater-Clinton: non c’era reato, ma a furia d’indagare i repubblicani riuscirono a farlo commettere. Bill mentì, cercò di ostacolare le indagini, e si mise nei guai da solo. È quel che sta facendo Trump, con un sovraccarico: l’uomo ha già un’inclinazione a mentire spudoratamente in tempi normali, figurarsi quando è infuriato per tutti gli inquirenti che gli ronzano attorno. Dunque l’indagine di Mueller potrebbe orientarsi sul reato di ostruzione alla giustizia. Premessa, almeno potenziale, per un procedimento d’impeachment. Sul quale però pesano gli equilibri politici. I repubblicani comandano alla Camera e al Senato, l’impeachment dovrebbero deciderlo loro. Un ribaltone interno al partito repubblicano per far fuori l’ingombrante Trump è un tema di cui si favoleggia dall’inizio della campagna elettorale; assomiglia a un pio desiderio più che a uno scenario probabile. Se invece i democratici dovessero riconquistare almeno uno dei rami del Congresso nelle elezioni legislative del novembre 2018, allora tutto ciò che sta accadendo sul Russiagate assumerà una pericolosità ben superiore per il presidente. Dall’8 novembre ad oggi, però, nelle cinque elezioni supplettive che si sono tenute per altrettanti seggi parlamentari vacanti, hanno sempre vinto i repubblicani.
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Pesa la responsabilità della ex amministrazione di non aver inflitto il giusto castigo ai russi Come l’indagine del superprocuratore può orientarsi verso il reato di ostruzione alla giustizia