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FERDINANDO GIUGLIANO
LA CRISI bancaria italiana assomiglia sempre di più al gioco dell’oca: lo scorso dicembre il governo era convinto di essere arrivato all’ultima casella, stanziando 20 miliardi di euro per ricapitalizzare gli istituti in difficoltà. Oggi la Commissione europea appare intenzionata a rimandare indietro due pedine: secondo indiscrezioni rivelate per primo dal Sole 24 Ore, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza devono trovare almeno un miliardo di euro in nuovi fondi privati per poter accedere agli aiuti pubblici e evitare così la liquidazione ordinata.
Questo avanti e indietro evidenzia la poca trasparenza nell’applicazione delle regole europee sui salvataggi bancari, ma mostra anche i costi della strategia italiana di voler salvare tutti gli istituti in crisi. Come già è avvenuto negli scorsi mesi, potrebbero dover essere le banche sane ad aiutare le rivali in difficoltà. Il risultato sarebbe azzoppare ulteriormente il sistema bancario, invece di aiutarlo.
La Commissione sta analizzando la richiesta delle due banche venete di ottenere una “ricapitalizzazione precauzionale” dallo Stato. Questo strumento serve ad aiutare istituti che sono ancora solvibili, ma che necessitano di capitale fresco per resistere a shock futuri. La Banca centrale europea ha dato un primo via libera all’operazione, quantificando in 6,4 miliardi di euro il fabbisogno di capitale complessivo. Bruxelles avrebbe però chiesto che le banche trovino nuovi fondi privati (in aggiunta al contributo già previsto da parte di azionisti e obbligazionisti subordinati) per evitare che l’intervento si configuri come un aiuto di Stato illegittimo.
Non vi è dubbio che questo triangolo fra Francoforte, Bruxelles e Roma sia un pessimo esempio di come gestire una crisi bancaria. Le richieste su come colmare il gap di capitale sembrano cambiare in continuazione. Un coordinamento e una comunicazione migliore dalle autorità europee sarebbero assai opportune. Il rischio della strategia attuale è una perdita di credibilità.
Detto questo, la rigidità della Commissione non è immotivata. Le regole europee prevedono che gli aiuti pubblici non siano usati per colmare perdite pregresse, ove impedire un vantaggio competitivo ingiustificato rispetto ai concorrenti. Il buco nelle due banche è dovuto alla presenza di crediti deteriorati messi a bilancio con valutazioni irrealistiche. Bruxelles sta solo chiedendo agli istituti di rettificarle, ripianando poi le perdite senza l’aiuto dei contribuenti.
Il problema è che le due banche venete sono così in difficoltà che non troveranno mai investitori intenzionati a metterci dei soldi. Se questi samaritani fossero esistiti, le ricapitalizzazioni provate dai due istituti l’anno scorso non sarebbero andate deserte. Per questo, una soluzione allo studio è chiedere alle altre banche di tassarsi per mettere in sicurezza il sistema.
Quest’idea ricalca però un tentativo di salvataggio fallito negli scorsi mesi. L’ultima volta che Veneto Banca e Popolare di Vicenza sembravano essere in sicurezza è stato quando il sistema bancario italiano si è inventato Atlante, un fondo privato che ha rilevato le due banche per evitarne la liquidazione ordinata. Quell’operazione non ha avuto successo perché il fabbisogno di capitale dei due istituti si è rivelato maggiore del previsto. Siccome quella prima questua non ha raggiunto l’obbiettivo, oggi se ne chiede un’altra, sperando il risultato sia diverso.
Una soluzione di questo tipo scaricherebbe ancora una volta sulle banche e le altre istituzioni finanziarie forti le vulnerabilità di quelle deboli. Da Intesa Sanpaolo a UniCredit, tutti gli istituti di credito che hanno preso parte a Atlante hanno dovuto svalutare pesantemente i loro investimenti nel fondo. Lo stesso è accaduto a Cassa Depositi e Prestiti, che custodisce il risparmio postale degli italiani.
Questa strategia non può continuare per sempre. Il problema di fondo è che molte banche italiane sono destinate a non essere mai più profittevoli, a causa dei cambiamenti epocali in corso nel settore del credito. Le aziende di fintech continueranno a conquistare quote di mercato grazie alla loro maggiore efficienza. Le banche sane devono investire in tecnologia, non nel mantenere in piedi concorrenti senza futuro.
Si dirà che la ragione per intervenire nelle banche in crisi è quella di salvaguardare la stabilità del sistema. Tuttavia, in molti casi, come quello delle venete, le dimensioni non sono tali da giustificare il timore di una crisi generalizzata. Nel grande gioco dell’oca della crisi bancaria, c’è il rischio che alcune pedine non riescano mai ad arrivare al traguardo. Se questi giocatori non potranno mai vincere, non ha senso far perdere anche gli altri.
L’autore è editorialista di Bloomberg View
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