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IL RUBINETTO DI DRAGHI E IL CONTO DA PAGARE

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MASSIMO GIANNINI
ASCOLTATE con orecchi italiani, le ultime parole di Mario Draghi suonano un po’ strane. Per il presidente della Bce, «la crisi dell’Eurozona è superata». Nel Paese Immobile appena raccontato dall’Istat, è come bestemmiare in chiesa.
SEGUE A PAGINA 31
ASCOLTATE con orecchi italiani, le ultime parole di Mario Draghi suonano un po’ strane. Secondo il presidente della Bce, «la crisi dell’Eurozona è superata ». Nel Paese Immobile appena raccontato dall’Istat, dove tutto è bloccato, dal lavoro giovanile all’ascensore sociale, parlare di «ripresa resistente e sempre più ampia» è come bestemmiare in chiesa. Cosa è cambiato, dall’osservatorio della Banca centrale europea? Draghi ci lancia due messaggi, importanti e impegnativi. Il primo messaggio è politico. Le presidenziali in Francia hanno riscritto la storia. L’onda lepenista si è infranta sullo scoglio di Macron, e ha perso la sua spinta distruttiva. La “narrazione sovranista” resta forte, ma come confermeranno le elezioni in Germania del 24 settembre non rappresenta più una minaccia mortale per la sopravvivenza dell’Unione. Questo non significa che l’Europa delle élite può tornare colpevolmente a voltare le spalle al suo popolo, come ha fatto spesso in otto anni in cui il reddito reale è crollato 15 volte più di quello degli Stati Uniti. Ma significa che il processo di “rifondazione” della Ue potrà essere governato lungo l’inscalfibile asse franco-tedesco, e non più affossato dall’improponibile Internazionale Populista. È un cambio di fase decisivo. E la politica monetaria, sia pure senza dirlo, non può non tenerne conto. È l’antica lezione di Guido Carli: il banchiere centrale non può vivere chiuso nella sua torre d’avorio, a compulsare solo il grafico dei prezzi.
Il secondo messaggio è economico. Un ciclo congiunturale molto migliorato, in un contesto socio-politico meno esasperato, induce la Bce ad uscire dalla stagione dell’emergenza e a tornare a una relativa normalità. Dal « whatever it takes » del luglio 2012 abbiamo vissuto nell’era del “draghismo-leninismo”. Ora è come se dovessimo passare dall’economia di guerra alla Nep. Vuol dire che Draghi si prepara a riporre il bazooka del Quantitative Easing (cioè gli acquisti di bond sui mercati) e ad avviare una strategia di rialzo dei tassi di interesse. Due buone notizie per l’Europa: non c’è più bisogno di politiche monetarie “non ortodosse”, e l’inflazione si sta stabilizzando intorno all’obiettivo del 2%.
Purtroppo, parafrasando il noto motto di Agnelli, stavolta quello che è buono per l’Europa non è buono per l’Italia. Se la Bce pompa meno liquidità nel sistema e riporta su i tassi da quota zero, tutto questo per noi significa aumento del costo del debito pubblico e peggioramento dei bilanci delle banche. È il conto da pagare alla nostra inconcludenza. A parte la Grecia, l’Italia è il Paese con la peggiore performance, durante e dopo la crisi. Il reddito reale pro-capite è sceso più della media europea, fino a un meno 12% rispetto al 2007, mentre la Spagna ha già riaccelerato del 3%. Rispetto ad allora, a noi mancano ancora più di 7 punti di Pil, mentre la Germania è già ricresciuta di 6. La disoccupazione resta intorno al 12% (quella giovanile al 39%, tra le più alte d’Europa): il jobs act, senza più il “carburante” della decontribuzione totale, si è rivelato il bluff che immaginavamo, con un crollo del 7,6% dei contratti stabili.
Abbiamo creduto che tutti i nostri guai fossero sempre causati da altri, in un grottesco complottismo ornitologico. I “gufi” in Italia, i “falchi” nell’Europa matrigna che impone austerità e nella Germania cinica che non limita il suo surplus commerciale. Non è così. Buona parte di quello che abbiamo perso, purtroppo, lo dobbiamo a noi stessi. Abbiamo “estorto” quasi 20 miliardi di flessibilità da Bruxelles, ma in tre anni non li abbiamo usati né per far crescere il Prodotto lordo, né per risanare i conti pubblici. Nel primo trimestre la crescita resta allo 0,2%, meno della metà dell’Eurozona e meno di un quarto della Spagna. Grazie alla moneta unica e all’aiuto della Bce negli ultimi 15 anni abbiamo risparmiato quasi 60 miliardi l’anno di spesa per interessi (sfiorava il 10% del Pil nel 2001, sarà il 3,8% quest’anno), ma ne abbiamo spesi 50 per i bonus a pioggia (dalle mamme agli Stradivari). Abbiamo aumentato la spesa corrente del 3% l’anno, ma abbiamo tagliato gli investimenti pubblici (dal 2,4% del Pil nel 2013 al 2,2 dell’anno scorso). L’avanzo primario è sceso di un altro punto nel triennio 2014-2016, il debito pubblico è al nuovo record storico di 2.252 miliardi.
Gli altri Paesi europei hanno approfittato della “finestra” aperta dalla politica accomodante della Bce e dal crollo dei prezzi del petrolio per rilanciare la produttività. Tra il 2011 e il 2016, mentre nell’Eurozona cresceva dello 0,4% e in America dello 0,5, in Italia crollava dello 0,4% all’anno. Come ci dice l’ultimo Rapporto Istat, negli ultimi 15 anni la “produttività multifattoriale” tra i Paesi Ocse è aumentata tra l’8 e il 12%, mentre in Italia è scesa del 6. Abbiamo dato la colpa all’euro troppo alto rispetto al dollaro: senza ammettere che, nonostante il cambio, le migliori aziende italiane hanno fatto sfracelli nell’export. Non abbiamo aggredito i nostri mali atavici: l’esigua diffusione delle tecnologie, la scarsa formazione dei lavoratori, le risibili spese per la ricerca, le insormontabili barriere alla concorrenza (con la relativa legge, già depotenziata dalle lobby, ferma in Parlamento da due anni).
L’annuncio di Draghi, ora, ci lascia pavidi e nudi di fronte a questo eterno cupio dissolvi. Finora la Bce ha comprato titoli italiani per quasi 100 miliardi l’anno, consentendo al Tesoro di risparmiare sulle cedole e alle banche di respirare sugli impieghi. Tutto questo sta per finire. Da aprile Francoforte ha già iniziato a ridurre gli acquisti mensili, da 9 a 7 miliardi. Quest’anno, su un totale di 262 miliardi di emissioni di Btp e Bot, ne comprerà altri 90. Ma sono gli ultimi fuochi. Dal 2018 si chiude. Tassi e rendimenti si impenneranno, appesantendo ancora di più il macigno del debito e del deficit pubblico. Mentre il prezzo dei bond crollerà, e questo imporrà al sistema creditizio sanguinose svalutazioni in bilancio. Considerato che le banche già sopportano una “soma” da 349 miliardi di crediti deteriorati lordi, che hanno in pancia 386 miliardi di titoli di Stato e che i Btp in portafoglio valgono come copertura dei ratios patrimoniali Cet1, abbiamo qualche buona ragione per #nonstaresereni.
Possiamo continuare a danzare allegramente sotto il vulcano del voto anticipato, bevendo “Rosatellum” o “Verdinellum” in cinquanta sfumature di “etilismo elettorale”. Ma dobbiamo sapere che in Europa ha smesso di piovere, e che Draghi sta per chiudere l’ombrello. Se la politica non si dà una mossa, resteremo gli unici a bagnarci di brutto, con la nuvola nera di Fantozzi sulla testa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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