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Le due verità dell’indagine Consip e la scelta dei pm napoletani di “riattaccare” i telefoni di Tiziano

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politica e giustizia
L’analisi.
L’opacità della cerchia di familiari e amici non è stata risolta per tempo da Renzi. La “concorrenza” delle toghe partenopee a Roma

CARLO BONINI
ROMA.

La pubblicazione del brogliaccio della conversazione telefonica intercettata dai carabinieri del Noe appena il 2 marzo scorso tra Matteo Renzi e il padre Tiziano, coperta da segreto di indagine e ora raccolta nel libro “Di Padre in figlio” del giornalista del Fatto quotidiano
Marco Lillo, ha la forza di documentare, insieme, due semplici verità. Che raccontano il «caso Consip» per quello che oggi è diventato o si tenta di far diventare. Che tornano a illuminare la stagione del Giglio Magico a Palazzo Chigi, e, contemporaneamente, quale infernale partita, da mesi, sull’asse Napoli-Roma si stia giocando sull’inchiesta Consip. Soprattutto, quale ne sia la vera posta in gioco. Che, con tutta evidenza, non è necessariamente la verità sulle responsabilità penali e politiche (quali esse siano, senza distinzione di nomi o appartenenze) delle tangenti e del traffico di influenze che hanno orientato gli appalti Centrale pubblica degli acquisti per il “Facility management” (commesse per 2,5 miliardi di euro) su cui dal 22 dicembre scorso indaga la Procura di Roma. Ma l’urgenza di rendere quella ricerca della verità apparentemente definitiva e dunque spendibile in tempi brevi al mercato della campagna elettorale svelando brandelli dell’attività istruttoria che fino al marzo scorso, in quell’inchiesta, ha svolto il Noe dei carabinieri (in primavera estromesso dall’indagine perché ritenuto responsabile di fughe di notizie) e continua a svolgere la stessa Procura di Napoli. Ufficio, come vedremo, che, inopinatamente, dopo essersi spogliato a favore di Roma dell’indagine a carico di Tiziano Renzi, ha continuato a intercettarne i telefoni, motivando l’ascolto della sua utenza come essenziale per la raccolta delle prove di quella parte di inchiesta Consip (quella relativa all’associazione a delinquere) rimasta per competenza a Napoli.
Ma andiamo con ordine. Le due verità, si diceva.
La prima è che leggendo il dialogo tra i due Renzi è evidente quanto l’ex Presidente del Consiglio diffidi del padre e del suo «giro di merda di Firenze». Quanto lo ritenga incline alla menzogna e alle mosse oblique, tanto da non credergli. Quanto di quella opacità, che evidentemente deve essergli connaturata, sia insieme spaventato e terrorizzato, perché non riesce a stimarne il potenziale danno politico. Il che, ammesso ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma, dimostra cosa sia stata la stagione del Giglio Magico a Palazzo Chigi. Con quale spensierata superficialità (nella migliore delle ipotesi) e disinvolta ignoranza del concetto di conflitto di interesse, si sia mossa e sia stata lasciata muovere la cerchia di amici e famigli dell’ex sindaco di Firenze transitata armi e bagagli nella stanza dei bottoni del Governo del Paese, ovvero in sua immediata prossimità.
La seconda verità ha a che fare con la storia di questa telefonata intercettata e con l’anomalia che svela. Per quanto Repubblica ha potuto ricostruire attraverso qualificate fonti inquirenti della Procura di Roma la sequenza dei fatti è questa. Il 22 dicembre 2016, la Procura di Napoli trasmette per competenza a Roma parte dell’inchiesta Consip. Nel fascicolo, Tiziano Renzi, al contrario dell’imprenditore che i napoletani vogliono abbia trafficato con lui in “influenze” (Carlo Russo), promettendo all’imprenditore napoletano Romeo di spendersi per un aiuto nell’aggiudicazione degli appalti, non è indagato. Ma, dal 5 dicembre i suoi telefoni sono intercettati dal Noe. Intercettare “terzi non indagati” è una mossa che il codice consente in casi rari e che i pm romani evidentemente ritengono incongrua, esattamente come indagare uno soltanto di due soggetti che concorrono in uno stesso reato. Iscrivono dunque Tiziano Renzi al registro degli indagati per traffico di influenze e, contestualmente, lasciano che le intercettazioni disposte da Napoli vadano ad esaurirsi entro i 20 giorni per i quali sono state autorizzate. Non fosse altro perché il reato di traffico di influenze non consente l’uso delle intercettazioni.
Ma, tra gennaio e febbraio, accade l’imponderabile. La Procura di Napoli informa la Procura di Roma dell’intenzione di “riattaccare” i telefoni di Tiziano Renzi per le stesse ragioni per cui ne hanno disposto l’ascolto nel dicembre precedente. È una mossa singolare che ha come effetto che una Procura della repubblica (Napoli) ascolti al telefono un uomo (Tiziano Renzi) su cui indaga un altro ufficio giudiziario per un reato per cui i telefoni non possono essere ascoltati. Ciò che è uscito dalla porta di Roma rientra dalla finestra di Napoli.
Il 3 marzo, giorno dell’interrogatorio di Tiziano Renzi, il Noe dei carabinieri, che sta ascoltando per conto di Napoli i suoi telefoni, dà conto alla Procura di Roma dell’intercettazione del giorno precedente con il figlio Matteo. Roma giudica quella telefonata penalmente irrilevante.
Qualche settimana dopo, il brogliaccio di quella telefonata viene fatto filtrare perché vada immediatamente alle stampe. Più o meno in coincidenza (fine marzo) con l’estromissione del Noe dei carabinieri dall’inchiesta perché ritenuto responsabile della fuga di notizie sull’ultima delle sue informative.
Ora, copia del file audio con quella conversazione del 2 marzo, come delle altre disposte dalla Procura di Napoli sono state consegnate dalla Procura di Roma al Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma perché vengano ascoltate e trascritte. Con una certezza. Le fughe di notizie nell’inchiesta Consip sono state due. Entrambe riguardavano attività di indagine condotta dalla Procura di Napoli e dal Noe dei carabinieri. Di entrambe la Procura di Roma è stata vittima. Vale a dire lo stesso ufficio che ha estromesso il Noe dall’indagine e indagato uno dei suoi ufficiali per falso.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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