14/5/2017
ROBINSON
FILOSOFIE
Scegliere la bicicletta non è solo questione di praticità: è un modo di affrontare la vita
di STEFANO MASSINI Parole chiare: la bicicletta con gli anni finisce per diventare una filosofia di vita. Ebbene sì: al di là dei crampi e dell’acido lattico, esiste eccome una psicologia da pedali, pronta a consolidarsi ai piani superiori del manubrio in un vero e proprio approccio ciclistico all’esistenza. Ne ha scritto ad esempio Didier Tronchet nel Piccolo trattato di ciclosofia (Il Saggiatore, 2009); io per parte mia, fiero di decenni di ciclismo amatoriale, cercherò qui di darvi la mia idea in proposito. Tanto per partire, c’è quel gusto, tutto speciale, che sta nel non dipendere da carburanti esterni: la bicicletta insegna a essere risorsa e limite del tuo sforzo, senza che niente e nessuno — esclusa quella meccanica elementare di ruote, catena e telaio — possa farti da alibi. Già non è poco: il ciclista è l’essere umano hegelianamente cosciente di sé, non più bisognevole di entità demoniache come il benzinaio, il carrozziere e l’elettrauto, da lui riunite con sberleffo in quell’unica categoria monocratica — più elfica che tecnica — del “biciclettaio”. Perfino quel residuo di punizione divina che era la “ ruota a terra”, perfino quello è stato ormai impugnato dal Binda del terzo millennio, fiero dei suoi pneumatici antiforatura, per cui l’epica officina è ormai solo un’illusoria consolazione del passato. Un’essenza profonda di umanità permea dunque l’esperienza del pedalare, e ne è parte integrante quel lottare faccia a faccia con la furia degli elementi, mai così scatenati come contro gli emuli di Girardengo: solo la bicicletta conosce fino in fondo il trauma del controvento, solo lei ti chiede l’estremo sforzo fisico nell’afa d’un’Italia sahariana, solo la bicicletta ti lancia disperato contro l’infierire omerico di quegli scrosci monsonici sempre puntuali nel coglierti anni luce dal primo riparo. E poi il fango. E poi la criminale pozza, grande quanto il Trasimeno, da cui le auto sollevano tsunami. Ma è una gara, signori miei, che ti fortifica, insegnando che davanti alle tempeste della vita sarai sempre solo sul sellino a fare i conti con te stesso, indifferentemente fradicio di sudore o d’acqua piovana. Sfido poi chiunque a negare che nella babele nevrotica del traffico odierno l’agilità basica della bicicletta conferisce a chi la inforca un senso nietzschiano di onnipotenza: pedalando non ingombri corsie né passi carrabili, non sei tenuto ad alcuna velocità di scorrimento, e infine assapori il nettare della parcheggiabilità immediata, che fa tutt’uno con la volontà estemporanea della sosta. La qual cosa, va da sé, svela progressivamente al pedalante quanto disumano sia il quotidiano pugilato sul ring dell’asfalto. Penso quindi che il ciclista sia un illuminato: come in Matrix egli vede dall’esterno il baratro di questa società tutta sempre on the road, e ora più che mai — con le autostrade intubate dentro tunnel fonoassorbenti — il suo pedalare è passepartout per un Eden riservato ai lenti: solo dal basso di quei venticinque chilometri orari, si gode il caleidoscopio di un’Italia di casupole e frazioni, aggrappate come gonfiori al reticolo delle provinciali. E che spettacolo, ragazzi! Niente racconta più di noi che quel fiorire di insignificanti drogherie e anonimi uffici postali, passaggi a livello e scuole elementari, chiese sconsacrate e capannoni agricoli vegliati a turni alterni da vecchi seduti e semidormienti cani. E se per i professionisti del pedale il Giro d’Italia dura tre settimane, per tutti gli altri, trecentosessantacinque giorni l’anno, quest’Italia segreta — spiabile nel ventre profondo del suo essere normale — è lì che aspetta solo di farsi girare. Imperdibile. ?
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