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L’economia delle lobby

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l’america di trump
I membri delle élite saltano sul carro del vincitore e fanno a gara per entrare nella nuova squadra

Uomini azienda come McKenna e Catanzaro consiglieranno Trump
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK.
L’establishment abbraccia il populista. Le élite saltano sul carro del vincitore. E il realismo stempera il movimentismo. I risultati sono eclatanti: dopo avere promesso in campagna elettorale l’abrogazione immediata e totale di Obamacare (la riforma sanitaria) in un’intervista al Wall Street Journal
Donald Trump fa già retromarcia, forse ne cambierà solo dei pezzi. In campo economico l’abbraccio tra i poteri forti e l’outsider è evidente. Le Borse hanno reagito bene, il dollaro si è rafforzato. Solo pochi settori sono penalizzati a Wall Street: scendono i titoli delle energie rinnovabili e del settore sanitario, per le incertezze iniziali sulla riforma Obama (che aveva il placet delle compagnie assicurative). Esultano banche, energie fossili, edilizia e opere pubbliche.
I segnali della grande alleanza che si cementa rapidamente fra Trump e l’establishment capitalistico sono leggibili nella composizione della sua squadra. O meglio delle squadre al plurale. C’è il “transition team”: gli uomini che gestiscono questa transizione da qui all’Inauguration Day del 20 gennaio. Poi c’è la futura squadra di governo, con oltre mille caselle da riempire quasi subito (e 4.000 in tutto) fra ministri e altri incarichi dirigenziali. Tra le due squadre avvengono spesso dei passaggi: alcuni dei consiglieri della transizione potrebbero a loro volta finire nell’organigramma dell’esecutivo. In ogni caso i nomi sono rassicuranti per l’establishment. A cominciare da Wall Street. Per il dicastero del Tesoro sono circolati identikit di grandi banchieri come Jamie Dimon di JP Morgan; ma ancora più utile nell’interesse di Wall Street sarebbe la nomina di politici che hanno sempre sostenuto gli interessi della finanza. In pole position c’è Jeb Hensarling, deputato repubblicano del Texas, presidente della Commissione bancaria alla Camera. Fiero avversario della legge Dodd-Frank che nel primo mandato di Obama riformò i mercati finanziari, Hensarling è il candidato ideale dei banchieri: sfoltirebbe lacci e lacciuoli che in questi anni post- crac del 2008 hanno ridotto le opportunità speculative. Un altro uomo-chiave è Paul Atkins, ex membro repubblicano della Sec (authority di vigilanza sulla Borsa): è uno dei più ascoltati da Trump ed è un alleato fedele dei banchieri.
Smentendo subito una delle sue promesse elettorali, Trump si sta circondando anche di lobbisti professionali, al servizio delle grandi aziende. Nel settore energetico, per esempio, i suoi consiglieri sono Michael Catanzaro, che da anni rappresenta a Washington gli interessi di diversi colossi petroliferi e lavorò anche per George W. Bush; nonché Mike McKenna che è il lobbista dei Fratelli Koch, la dinastia petrolchimica di destra. Gli elenchi dei lobbisti accorsi a consigliare Trump si allungano di giorno in giorno, nell’entourage del presidente eletto sono ben rappresentati gli interessi dell’agrobusiness, delle telecom, del tabacco. Per un incarico di rilievo nel commercio estero si fa il nome di Dan DiMicco, un ex industriale dell’acciaio noto per le sue idee protezioniste. Quindi la luna di miele fra i mercati e Trump sancisce il fatto che l’establishment capitalistico ha già instaurato un rapporto intenso, intimo e promettente. Prima del voto si diceva: l’economia non ama l’incertezza e Trump sarà un salto nel buio. Adesso la sensazione è quella di un ritorno all’antico, almeno per i trattamenti di favore riservati al Big Business.
C’è un’altra ragione per cui i mercati “adottano” Trump smentendo tutte le previsioni apocalittiche della vigilia. Questa riguarda lo scenario macroeconomico. L’America entra nel suo ottavo anno consecutivo di crescita. La storia e la statistica dicono che si tratta di una ripresa già molto lunga, i tempi sarebbero maturi per la prossima recessione. Può rivelarsi benefico e tempestivo il maxi-piano di Trump per rinnovare le infrastrutture decrepite: strade, autostrade, porti, aeroporti, rete elettrica. Mille miliardi di dollari d’investimento, fu la sua promessa in campagna elettorale. I dettagli li ha elaborati per lui l’economista Peter Navarro della University of California- Irvine. Si tratta di un piano condivisibile anche dai democratici: Hillary Clinton e Bernie Sanders proponevano cose simili. Trump forse può riuscire a superare le resistenze dei repubblicani tradizionalisti, ostili ad aumenti di spesa e deficit pubblico, finanziando il New Deal delle infrastrutture soprattutto con capitali privati: project finance e formule analoghe. In base al piano Navarro, però, i privati vedrebbero coperti fino all’82% dei loro investimenti da generosi sgravi fiscali. E questo significa che l’onere per la finanza pubblica alla fine ci sarebbe lo stesso: sotto forma di mancato gettito fiscale anziché di maggiori spese. Alle obiezioni dei falchi repubblicani Trump risponde invocando la “teoria dell’offerta” che fu popolare con Ronald Reagan. Secondo l’affarista newyorchese, alla fine i conti pubblici non subirebbero alcun ammanco, anzi: la crescita ripartirebbe, facendo aumentare anche le entrate statali. È una teoria spesso smentita dai fatti. Ma il piano per le infrastrutture colloca Trump agli antipodi rispetto all’austerity europea; e più vicino alle idee dei neokeynesiani di sinistra come Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Robert Reich.
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Per il Tesoro girano i nomi di banchieri come Dimon. E il futuro presidente ritratta sull’Obamacare riforma gradita agli assicuratori
FOTO: © EPA/ ALBA VIGARAY

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