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Spendiamo 3 miliardi l’anno per fabbricare delinquenti

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LOTTA ALLA CRIMINALITA'

Le carceri costano un'enormità. Per di più, dopo esserci passato, il 70% dei detenuti torna a infrangere la legge ( la media europea è del 20%). Sono troppo pochi (29,7%), quelli che dietro le sbarre imparano un mestiere. E, una volta fuori, trova lavoro solo il 3%.

 
 
 
 
 
di MAURIZIO TORTORELLA
 È un periodo nel quale si dibatte molto sui 54.131 detenuti nelle 193 carceri italiane e sullo sfacelo della stragrande maggioranza dei nostri penitenziari.
Da anni, una battente campagna dei radicali cerca di diffondere l'idea che il trattamento degradante cui sono sottoposti i reclusi giustifichi un'amnistia. Lo scorso 6 novembre anche il Papa si è detto favorevole, ma questo non pare convincere né governo né Parlamento.
Ora, lasciamo da parte il tema, opinabile, dell'amnistia: si può essere d'accordo 0 meno. Quel che gli italiani sicuramente ignorano, però, è quanto costa allo Stato «l'esecuzione penale», cioè quello che nel lessico giudiziario definisce l'insieme di tutte le misure che mettono in pratica le sentenze definitive  (i condannati di questo tipo sono 35.205, quasi il 64% dei reclusi) o le ordinanze di custodia cautelare (i reclusi in attesa di primo giudizio sono 9.826, quasi il 18%). Insomma, è la cifra
che costano le nostre prigioni, con tutte le spese annesse e connesse: dalla gestione dei 781 detenuti in semilibertà e di quelli «messi alla prova» al costo d'affitto dei circa 2.ooo«braccialetti elettronici» (che da solo si aggira su 11 milioni Panno), fino alle attività di reinserimento dei carcerati.
Bene, l'«esecuzione penale» in Italia costa all'incirca 3 miliardi di euro Panno. Il problema è che tanta ricchezza pubblica viene letteralmente buttata dalla finestra, in questo caso una ñnestra chiusa a grate. Soltanto per ognuno dei 54.131 detenuti presenti in cella al 31 ottobre scorso (18.578 dei quali stranieri), c'è chi ha calcolato che il costo per vitto e manutenzione ordinaria va da 115 a 130 euro al
giorno. Ed è una cifra altissima, visto che in cella nessuno mangia il rancio cucinato in prigione: soltanto i veri disperati. Gli altri si arrangiano da sé, di tasca loro, con il mitico «spesino».
Ma la domanda vera è un'altra: i 3 miliardi annuali servono almeno a proteggere la società dal érimíne? La risposta è brutale: no. Perché  parrà paradossale, se non surreale, ma se si analizzano i «tassi di recidiva», cioè la propensione a delinquere di chi è stato almeno una volta dietro le sbarre, si scopre che in Italia torna a compiere reati il 68-70% dei detenuti, mentre nel resto d'Europa si va dal 15 al 20%. È un dato incredibile, ma confermato da tutte statistiche: se vai in prigione,
quando esci in più di due casi su tre torni al crimine. Insomma, il carcere in Italia è davvero eccellente scuola di delinquenza di cui si è sempre parlato.
Va riconosciuto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, un impegno a favore delle pene alternative e per la riforma dell'esecuzione penale. È una scelta giusta, ma soprattutto oculata. Un
suo predecessore, Fex ministro della Giustizia Paola Severino, aveva già calcolato nel 2012 che «la recidiva di chi sconta la condanna attraverso misure alternative (quindi non passando per il carcere, se non in certi casi e comunque per periodi il più possibile brevi, ndr) scende drasticamente al 19%». Paola Severino aveva valutato correttamente anche un altro aspetto fondamentale della questione:
il lavoro dei condannati, che putroppo in Italia è ancora un'araba Fenice. «La percentuale di recidivi che non hanno mai lavorato in carcere» calcolava cinque anni fa l'ex Guardasigilli «è superiore di tre volte rispetto a coloro che hanno svolto mansioni lavorative all'esterno o all'interno dei penitenziari».
Il problema è che in Italia l'80-85% delle condanne viene scontato in carcere, in pochi metri quadri di cella e quasi sempre senza che sia prevista alcuna attività lavorativa: e l'ozio, se possibile, abbrutisce i detenuti ancor più della fatiscenza di una cella. Al 31 dicembre 2015 le statistiche ministeriali garantivano che i «detenuti lavoranti» erano 15.524, appena il 29,7% del totale; si, sempre secondo i
dati ministeriali c'era stato un lieve miglioramento rispetto all'anno precedente, quando erano 14.550, il 27,1%. Ma sono statistiche estremamente generose, perché un vero percorso d'istruzione e di avviamento al lavoro oggi esiste solo per un fortunato 3% di reclusi.
Sono, soprattutto, statistiche da mondo sottosviluppato. Perché in Francia e in Gran Bretagna avviene quasi l'esatto contrario: oltre due terzi dei condannati sono quotidianamente impegnati in lavori di pubblica utilità, per di più condotti quasi sempre all'esterno delle prigioni. Non vale quasi la pena di confrontarsi con realtà come la Danimarca, dove le regole sono così lontane dalle nostre da
essere quasi inconcepibili alla luce della nostra esperienza.
È soltanto la chanche di un'occupazione che tiene lontani i condannati dalla ricaduta. È vero che anche in Italia ci sono alcuni (pochi) casi esemplari: come il carcere di Bollate, vicino a Milano, dove invece il lavoro è la regola, e la recidiva è inferiore al 20%. Ma sono per l”appunto casi, e in quanto tali isolati. Purtroppo.
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