LA CORSA ALLA CASA BIANCA
FEDERICO RAMPINI
L’ACCOGLIENZA
Hillary Clinton ha votato in una scuola di Chappaqua, nello Stato di New York, con il marito Bill: 150 persone li hanno aspettati al seggio
FOTO: ©BRIAN SNYDER/REUTERS
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK.
Una notte-shock, con Donald Trump che ha sbaragliato le previsioni e smentito i sondaggi. Al punto che il New York Times ha capovolto clamorosamente il suo modello previsionale: di colpo alle 21:30 locali ha dato Trump favorito per la vittoria, dopo avere assegnato quasi il 90% di probabilità a Hillary Clinton fino a poche ore prima degli exit poll. Trump ha vinto dove la sua forza era nota, ma ha vinto più di quanto ci si aspettava. Ha conquistato in modo massiccio l’elettorato bianco, soprattutto con titoli di studio bassi. La classe operaia lo ha incoronato, con margini superiori a quelli assegnati per mesi da sondaggi. È stata una disfatta dei sondaggisti ma anche dell’establishment, delle élite: di tutto ciò che viene identificato con Hillary. La voglia di cambiamento, la sofferenza per i costi della globalizzazione, l’insofferenza verso l’immigrazione, l’attrazione verso l’Uomo Forte, il mito dell’imprenditore che può governare meglio dei politici: tutti gli ingredienti del populismo già noti in Europa sono stati usati con una forza irresistibile dall’affarista newyorchese. Alle 22.30 della East Coast la gara era ancora aperta, il verdetto non era chiaro. Ma di certo la prima metà della nottata americana era stata al cardiopalmo, molto più risicata di quanto i democratici speravano.
Un Paese spaccato, lacerato, in preda a una larvata guerra civile interna. «Qualunque cosa succeda, il sole sorgerà nuovamente », ha detto al Paese il presidente uscente Barack Obama. Hillary aveva colto il problema già nella mattina di martedì. «Finita l’elezione il nostro lavoro insieme è tutto da cominciare. Dobbiamo tornare ad ascoltarci, a superare divisioni e cattiverie». Un lavoro in salita, mentre le prime proiezioni indicavano la quasi certezza di una maggioranza repubblicana al Senato: la stessa che ha paralizzato Obama negandogli anche il potere di nomina alla Corte suprema. Chiunque vinca, il Congresso rimane a destra. Quand’anche dovesse perdere, Trump avrà raccolto un bottino di voti così ricco da farne un protagonista permanente, in grado di imporre la sua leadership al partito repubblicano, e di incalzare una (eventuale) presidente Clinton, che partirebbe subito in condizioni di estrema debolezza. Per incontrare i suoi sostenitori – e un esercito di giornalisti affluiti dal mondo intero – Hillary aveva scelto da tempo un luogo simbolico e un po’ presuntuoso: il Jacob Jarvits Convention Center, sulla 34esima strada e 11esima avenue di Manhattan, un centro congressi faraonico per la sua capacità di accoglienza. Con un dettaglio, il soffitto interamente di vetro: proprio quel “glass ceiling” che è la metafora spesso usata per indicare l’invisibile barriera che blocca tante donne nelle carriere professionali o politiche. Per molti americani non è l’umiltà a venire in mente quando si parla di Hillary.
L’America esausta e frastornata, traumatizzata, piena di ferite aperte, ha bisogno proprio di avviare una grande terapia nazionale. È reduce dalla campagna elettorale più volgare, offensiva, incivile che si ricordi nella storia contemporanea. E non solo per gli insulti e le diffamazioni. Tra le vittime c’è la legittimazione reciproca che è condizione basilare per il funzionamento della democrazia. È un’America spaccata tra “noi” e “loro”, tribù incapaci di comprendersi, un blackout di comunicazione ingigantito dalla balcanizzazione dei mass media e dei social media, le “verità su misura”, le menzogne che diventano Vangelo.
Qualunque riconciliazione nazionale è condizionata da una realtà etnica, demografica, culturale e politica che esce sconvolta dalla campagna elettorale. Le due Americhe sono divise da tante faglie, visibili e invisibili. Il sesso. Il colore della pelle, l’appartenenza etnica. Il titolo di studio. L’area geografica e il settore economico. Rust Belt contro Sun Belt, la cintura della ruggine contro la cintura del sole. Queste faglie iniziarono ad apparire all’epoca di Ronald Reagan, ma con una valenza politica diversa. La globalizzazione non aveva fatto il salto di qualità con l’apertura alla Cina, negli anni Ottanta. Ma già erano in atto quelle grandi “delocalizzazioni interne” che spostarono il baricentro industriale dalla vecchia Rust Belt del Midwest verso gli Stati solari della California e dell’Arizona. Dalla siderurgia e dall’automobile verso l’informatica. Da un mondo di operai sindacalizzati ad uno di ingegneri informatici iper-individualisti. Quella prima ridislocazione degli anni Ottanta coincise con un’egemonia repubblicana e neoliberista sulla Sun Belt. Oggi grazie all’immigrazione ispanica e alle rivoluzioni valoriali l’America della “seconda transizione demografica” è il rovesciamento speculare di quella: la classe operaia ferita dalla globalizzazione si sente tradita dai democratici, mentre verso di loro affluiscono nuove generazioni, ceti ad alto livello d’istruzione, minoranze etniche.
Chiunque vinca non si può chiudere questa campagna elettorale senza fare i conti con Bernie Sanders. Il senatore del Vermont seppe suscitare un entusiasmo giovanile eguale o superiore a Barack Obama. Sanders prometteva una rivoluzione politica e non era uno slogan: parlava di tranciare i legami perversi tra lobby e politici, di prosciugare i fondi elettorali, di colpire le oligarchie del denaro, di restituire la democrazia ai cittadini. Resta quello il cantiere indispensabile, per voltare pagina davvero.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
La candidata democratica “Vorrei essere ricordata come chi ha iniziato a guarire l’America”
Ma già dai primi risultati arriva lo spettro di un risultato shock
“
LE PAROLE DI OBAMA
Qualunque cosa succeda, domani in America il sole sorgerà nuovamente
”