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Obama-Renzi: le vere ragioni della svolta

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 19
ottobre
2016
11:41
di MARCELLO FOA - Ma perché Obama improvvisamente "ama" Renzi? Ricordatevi che fino a qualche tempo fa il nostro premier non godeva di grande considerazione a Washington. La ragione a mio giudizio è da ricercare nelle alchimie del potere in Europa, considerando due fattori, uno di fondo e uno di merito.
 
Vediamo quello legato al contesto. L'establishment internazionale si è spaccato dopo il Brexit e non c'è concordanza sulla strategia da seguire per far fronte all'uscita della Gran Bretagna e ai rischi di implosione dell'eurozona. Alcuni sintomi sono evidenti: Mario Monti e il Financial Times si schierano per il no al referendum, mentre la Casa Bianca appoggia il sì; alcuni commentatori come Larry Summers invitano a riconsiderare i nazionalismi e le ragioni dei populismi, altri spingono nella direzione opposta dunque verso l'imposizione degli Stati Uniti d'Europa.
Nel merito: la Germania si è ribellata agli Stati Uniti, bocciando il TTIP e mostrando crescenti dubbi sule sanzioni alla Russia. Fino ad oggi Washington ha lasciato che l'egemonia tedesca sul Vecchio Continente fosse incontrastata, ma lo scatto d'orgoglio del governo tedesco ha vanificato o comunque reso più complicato un progetto a cui la Casa Bianca teneva molto. Lo sgarbo in termini diplomatici non è stato indolore. L'impressione è che l'America ora sia molto meno comprensiva nei confronti di Berlino con cui ha un conto aperto.
E allora la grande apertura di Obama a Renzi va letta soprattutto in quest'ottica. Il premier italiano viene rivalutato non per meriti particolari ma perché con una Gran Bretagna in uscita dalla Ue, una Spagna senza governo, una Francia che si avvia a un'elezione presidenziale dall'esito incerto, l'Italia rappresenta l'unico grande Paese europeo in grado di opporsi o perlomeno di dar fastidio alla Merkel. E il suo premier può riuscirci solo se viene percepito come più importante e più credibile di quanto sia stato sin d'ora.
La grande cerimonia alla Casa Bianca, in occasione dell'ultima cena di Stato dell'era Obama, costituisce un'investitura solenne di fronte a tutti e, soprattutto, alle cancellerie europee. Renzi ora diventa l'uomo degli americani, ed è paradossale che a interpretare questo ruolo sia colui che fino a ieri sembrava disposto a difendere, almeno in parte, anche le ragioni di Mosca. Accettando di mandare i soldati italiani al confine con la Russia - con una decisione pericolossima per l'Italia - Renzi aveva già segnalato da che parte stava. Ora la consacrazione di Obama spazza via ogni dubbio. E conferma di che pasta è fatto Matteo da Rignano.





Article 1

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Federica Mogherini, rappresentante della Commisione Europea per la Politica estera
Due giorni fa, Federica Mogherini era raggiante. ln qualità di Alto rappresentante per gli Affari esteri dell'Unione europea ha presentato il primo rapporto sugli accordi stretti da Bruxelles con i Paesi africani in materia di immigrazione. Poco ci mancava che la signora si battesse da sola vigorose pacche sulle spalle, tanta era la soddisfazione. «Abbiamo ottenuto  più in quattro mesi che negli ultimi anni», ha dichiarato.

«Stanno cominciando ad arrivare i primi risultati sul campo», ha aggiunto facendo riferimento ai progetti finanziati dall'UE in Stati come il Mali, la Nigeria, l'Etiopia, il Senegal e il Niger. Si tratta dei cosiddetti «Trust Fund» per l’Africa. In pratica, accordi che prevedono cospicui finanziamenti da parte dell'Europa allo scopo di convincere i governi del Continente nero a frenare l'ondata migratoria in corso. Allo stato attuale sono operativi 59 programmi, per una spesa complessiva dì 927 milioni di euro. Altri 500 milioni verranno versati a breve dal Fondo europeo per lo Sviluppo.
   La Mogherini è apparsa particolarmente fiera dei risultati ottenuti in Niger, un Paese a cui l'Italia è particolarmente legata. poiché lì si trova un grosso centro per immigrati alla cui realizzazione abbiamo contribuito con impegno. Ad Agadez sorge, infatti, il primo punto di raccolta dei migranti» che dal Sud e dal Centro Africa sono diretti in Libia.Una volta giunti in Niger, costoro dovrebbero essere convinti (dietro pagamento per il disturbo) a fare ritorno a casa propria.

   La Mogherìnì gioisce perché. come riporta l`Ansa
«in Niger sono aumentati i ritorni volontari, passati dai 1.721 del 2015 a oltre 3.200 nei soli primi otto mesi del 2016. Mentre i quattro centri di transito messi in piedi con il sostegno Ue, con 1.500 posti in totale, hanno fornito assistenza a oltre 12 mila migranti da novembre 2015 a luglio 2016».
 Ora, contando che al 18 ottobre in Italia sono entrati  145.381 stranieri, forse non c'è molto da festeggiare. Tanto per cominciare, le persone che decidono di tornare a casa restano poche. Ma, soprattutto, nessuno può dimostrare che, una volta rientrati in patria con il sostegno dell`Ue (e dell'Italia), gli immigrati non ripartano di nuovo.

   La questione merita un ulteriore approfondimento. Sul sito della Commissione europea c’è una sezione dedicata ai Trust Fund per l`Africa, in cui sono indicati - Stato per Stato – i fondi impiegati. Nella pagina che riguarda il Niger compare quanto segue. Un «Programma per supportare lo sviluppo locale e la governance  per una migliore gestione dei flussi migratori» finanziato con 25 milioni di euro. Un programma per «Creare lavori nelle aree di transito di Tahoua e Agadez» sostenuto con 30 milioni di euro. Ancora: un accordo per «Supportare la giustizia e la sicurezza e combattere il crimine organizzato, lo scafismo e la tratta di esseri umani» foraggiato con 30 milioni di euro. Non è finita.  Ci sono anche 6,9 milioni di euro spesi al fine di creare posti di lavoro per i giovani nell'area di Agadez e di Zinder; 6 milioni destinati a un team di investigazione che combatta l'immigrazione irregolare e, per finire. 7 milionispesi sempre per le necessita dei migranti. Sono un bel mucchio di soldi. Ma, a parte gli scarsi rimpatri, che risultati hanno portato davvero tutti questi fondi? Lo spiegano due fonti di certo non sospettabili di ostilità verso gli immigrati, cioè la rivista di geopolitica Limese il celebre magazine statunitense Politico. La testata americana, tre giorni fa. ha pubblicato un reportage di Lucas Destrijcker intitolato «Benvenuti ad Agadez, capitale africana dei trafficanti di uomini». Piuttosto chiaro no? L`articolo è lungo e documentato. Ne citiamo solo un illuminante passaggio. Il cronista parla con Tareq, un trafficante di uomini libico di 27 anni. Il quale spiega: «Paghiamo tutte le tangenti che servono. Dai poliziotti in strada fino al sindaco alla scrivania, tutti guadagnano dall'industria dell'immigrazione e preferiscono che le cose vadano avanti cosi». Niente male.

   E come la mettiamo con i vari progetti europei per la sicurezza e la lotta alla criminalità? Lo spiega lo stesso Tareq: «Dobbiamo solo aumentare le spese per le autorità». Capito? Visto che l`Europa rompe le scatole, toccherà piazzare un po' più di grasso sugli ingranaggi, ma il problema si risolverà. Del resto, come ha raccontato su LimesLuca Raineri, «in Niger le guardie sono ladri e cogestiscono le migrazioni». Raineri descrive un Paese in cui il traffico di esseri  umani è divenuto ormai un pilastro dell`economia. Ad Agadez, centro che abbiamo contribuito a costruire, sono sorti dei ghetti gestiti dagli schiavisti. in cui le persone stazionano anche per periodi piuttosto lunghi. Insomma. la situazione sembra sempre la medesima: soldi degli aiuti vengono in gran parte sprecati. Come notava ieri il New York Times, persino la tanto decantata «crescita africana» in alcuni Stati si È tradotta in un business riservato a pochi. Su tutti, vale citare il commento rilasciato al quotidiano americano dall'economista dello Zambia Grieve Chelwa: «La crescita africana? È stata un affare per alcuni dittatori pazzi».

Francesco Borgonovo su la Verità del 20-10-2016



Culle vuote

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l’italia che cambia
L’Istat certifica un calo senza precedenti: da gennaio a giugno i nuovi nati sono diminuiti del 6%, il triplo di un anno fa

Il tracollo delle nascite: in 6 mesi 14mila in meno
MICHELE BOCCI
È COME se dal primo gennaio al 30 giugno di quest’anno a Roma non fosse nato neppure un bambino. Sale parto sbarrate, consultori vuoti, ecografi spenti negli ambulatori dei ginecologi: tutto chiuso. E ancora non basta. Nella capitale infatti in sei mesi vengono al mondo circa 12mila bambini, e nell’intero Paese durante lo stesso lasso di tempo del 2016 ci sono state 14.600 nascite meno dell’anno prima. Cioè si è avuto un calo mai registrato in epoca recente, del 6%. In numeri assoluti significa 221.500 nuovi nati contro i 236.100 di un anno fa.
La riduzione della natalità già andava a passo sostenuto, ora sta diventando una corsa e i dati pubblicati ieri dall’Istat riguardo alla prima parte del 2016 disegnano un futuro davvero fosco dal punto di vista demografico. Certo, sono i primi sei mesi, teoricamente da luglio a dicembre potrebbe cambiare qualcosa in meglio ma appare molto difficile che si risalga troppo la china, vista la tendenza avviata ormai da molti anni. E del resto potrebbe anche accadere il contrario, cioè esserci una riduzione più sostenuta. Se si analizza quanto accaduto nel 2015, ad esempio, il calo rispetto al 2014 dopo i primi sei mesi era di circa il 2% e alla fine dell’anno è arrivato al 3, portando il dato assoluto a 485mila nati, per la prima volta nella storia d’Italia sotto il mezzo milione. Ebbene, se si proiettano i numeri disponibili per il 2016 su tutto l’anno ci si ferma tra i 450 e i 460mila nuovi italiani. Sono solo stime ma danno l’idea di cosa possa succedere nel giro di un lustro se si continua ad andare avanti di questo passo.
Il 2015 era stato anche l’anno del boom della mortalità, con ben 49mila decessi in più rispetto al 2014 (+8,2%). Un aumento mai registrato che i demografi hanno spiegato dicendo che probabilmente freddo, influenza e poi caldo avevano portato al decesso moltissimi anziani fragili. Persone che in condizioni più favorevoli sarebbero vissute un po’ di più. A guardare i dati del primo semestre 2016 la teoria sembrerebbe azzeccata. Si osserva infatti una forte riduzione rispetto all’anno precedente, di ben 24.600 morti, cioè il 7%. I valori tornano così in linea con quelli del 2014, cioè prima del picco, anche se restano un po’ superiori.
Il cosiddetto “saldo naturale”, cioè la differenza tra nati e morti, l’anno scorso aveva toccato il rosso record di 162mila persone perché i decessi erano stati 647mila. Quest’anno il valore negativo sarà dovuto piuttosto al calo delle nascite, e potrebbe attestarsi tra i 120 e 130 mila cittadini in meno. Il secondo valore più alto da quando questa voce è finita in rosso, cioè dal 1983.
Saranno gli esperti a dire cosa sta succedendo nel 2016. Di certo gli allarmi sulla denatalità lanciati da più parti, dai demografi come dai medici, dagli economisti come dal ministero della Salute, che poi ha completamente sbagliato la campagna con la quale voleva porre all’attenzione di tutti il problema, erano molto fondati. I dati finali faranno comprendere anche quale ruolo hanno avuto gli stranieri nel nuovo, marcatissimo calo.
A fronte di coppie italiane che ormai da tempo hanno iniziato a fare sempre meno figli, gli immigrati avevano in qualche modo impedito il tracollo e ormai negli ultimi anni rappresentano almeno il 20% di chi dà alla luce un bambino in Italia. Il timore dei demografi è che anche loro stiano cambiando abitudini in fatto di maternità e parto, perché interessati da un fenomeno che almeno dal 2008 ha origine anche nella crisi economica e quindi riguarda tutti coloro che vivono in Italia, da ovunque provengano.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Documento rivela: la riforma Boschi ci renderà schiavi dell'Europa

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IL DOCUMENTO DEL GOVERNO

CON IL SI AL REFERENDUM ADDIO ITALEXIT
DIVENTEREMO GLI SCHIAVI D'EUROPA


di GIUSEPPE PALMA
avvocato costituzionalista 
   Ho già scritto, proprio sulla Verità, della costituzionalizzazione del vincolo esterno Ue attraverso la modifica degli articoli 55 e 70 della costituzione. Pertanto non mi ripeterà. Dì contro, i «figli destituentì» e i prestìgìatorì del Si sostengono che il vincolo esterno Ue in Costituzione è già previsto dall'art. 117 della Carta, che a costituzione vigente cioè dopo la riforma del 2001) parla di potestà legislativa che deve rispettare i «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», divenuti semplicemente «vincoli derivanti dal1”Unione Europea» con il testo di revisione costituzionale Renzi-Boschi. Ma non è cosi. Lo scopo della riforma - su stessa ammissione di Palazzo Chigi- non è quello di rendere più efficiente la macchina dello Stato, bensì di rispondere unicamente all`«esigenza di adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea». 
   A fugare ogni dubbio ci ha pensato addirittura il governo quando ha illustrato al Senato le ragioni della riforma. Il documento ufficiale che inchioda Renzi & Co. è la Relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale presentato dall'esecutivo al Senato l`8 aprile 2014. Nel documento è scritto testualmente: 
«Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l'esigenza di adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea [...]: il complesso di questi fattori ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno da ultimo interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119, della Carta (costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio avvenuta nel 2012, rido), ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione Europea, Stato e Autonomie territoriali». 

   Un linguaggio, come sovente avviene, complesso e prolisso per affermare la nostra dipendenza dalle élite economiche europee. Cosa assai diversa da quanto viene affermato oggi in costituzione.
    I vincoli esterni di cui all'articolo 117 trovano infatti la propria radice genitrice nei Trattati sottoscritti dal nostro Paese. Quindi, se un domani volessimo liberarci dei vincoli tipizzati dal 117 sarebbe sufficiente denunciare i Trattati stessi. Nel caso dei Trattati europei, la denuncia avverrebbe facendo leva sull'articolo 5o del trattato sull'Unione europea (quello che al primo comma sancisce che «ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall`Unione››), quindi un atto unilaterale che non necessita di particolari motivazioni. 
   Se invece la riforma costituzionale dovesse superare anche la prova referendaria, con la tipizzazione del vincolo esterno Ue attraverso la modifica degli articoli 55 e 70 della Costituzione (quest`ultimo è stato cambiato passando da 9 a oltre 4.00 parole), i nostri obblighi nei confronti dell'ordinamento europeo non discenderebbero più per Trattato, bensì addirittura per costituzione, con la conseguenza che se un domani volessimo liberarci dai vincoli Ue non sarebbe sufficiente la sola denuncia dei Trattati, ma occorrerebbe una nuova revisione costituzionale attraverso la procedura aggravata prevista dall'articolo 138 della Costituzione.
   Questa, nero su bianco, e la verità. Tutto il resto è propaganda di regime.










IL GROVIGLIO ARMONIOSO DEL SALVATAGGIO MPS

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COMMENTI

MASSIMO GIANNINI
A QUARANTA giorni dal referendum costituzionale, la questione bancaria angustia lo Stato e infiamma il mercato. Sulla vendita di Etruria e dei tre istituti “in risoluzione” dal dicembre 2015, sul consolidamento delle due Popolari Venete e soprattutto sul salvataggio del Montepaschi, il governo si gioca una parte importante della sua credibilità, e il mercato una quota rilevante della sua stabilità. Finora, la partita l’hanno giocata male tutti. La politica è entrata in campo, la finanza è rimasta in panchina, la Vigilanza addirittura in tribuna.
Il caso Mps è esemplare. La banca di Siena si conferma un “groviglio armonioso”, come la chiamavano dai tempi del Pci e del “socialismo municipale” degli anni ‘80. L’istituto, in crisi da vent’anni, bocciato agli stress test dell’Eba e bisognoso di un’iniezione di risorse fresche per 5 miliardi, nell’ultima settimana ha strappato in Borsa, recuperando il 40% del suo valore (dopo averne bruciato i due terzi dall’inizio dell’estate). È passato di mano più del 30% del capitale. Chi ha comprato? Nessuno lo sa. Perché ha comprato? Ci sono in ballo due ipotesi di aumento di capitale: uno di Jp Morgan, patrocinato da Vittorio Grilli, l’altro di alcuni fondi Usa, patrocinato da Corrado Passera. I risparmiatori non ne sanno quasi nulla. Ma tanto basta a destare gli appetiti della speculazione.
La vicenda Mps interroga innanzi tutto il governo. Qui c’è un primo problema: i rapporti tra politica e finanza. E un primo valore da tutelare: l’indipendenza. Ieri Renzi ha detto che il Monte «ha uno straordinario passato e avrà uno straordinario futuro». Ha aggiunto che non si schiera nella partita tra gli ex ministri Grilli e Passera, e che a lui sta a cuore solo «che ci sia uno spazio d’azione per la banca». Parole sante. Ma il premier, in questi mesi, su Mps si è mosso con un eccesso di disinvoltura. Era il 22 gennaio, quando nel comodo salotto tv di Bruno Vespa annunciava: “Ora Mps è risanato, investire è un affare”: da allora i titoli hanno perso il 60%, e senza la ricapitalizzazione la banca va in default. Era il 6 luglio, quando nel dinamico salotto di Palazzo Chigi il premier riceveva i vertici di Jp Morgan, il “ceo” Jamie Dimon, accompagnato da Grilli, e i due si impegnavano a curare l’aumento da 5 miliardi, in cambio (secondo la ricostruzione del senatore pd Massimo Mucchetti) di una ricchissima torta di commissioni e interessi da ben 1,7 miliardi. Ed era il 7 settembre, quando dal silenzioso salotto di Via XX settembre il ministro del Tesoro Padoan chiamava l’allora presidente della banca Tononi per ordinargli, in nome di Jp Morgan per conto del presidente del Consiglio, di rimuovere l’allora amministratore delegato Viola.
L’ordine è stato eseguito. Al posto di Viola è arrivato Marco Morelli, già manager di Mps ai tempi dei pasticci di Mussari sui prodotti “Fresh” e “Santorini” (che poi faranno esplodere l’inchiesta giudiziaria, il misterioso suicidio/omicidio del portavoce di Rocca Salimbeni, Davide Rossi, e i soliti sospetti di trame massoniche denunciate da Alessandro Profumo) e già in affari con Marco Carrai (amico personale del premier e suo consulente di fiducia per l’intelligence). “Groviglio armonioso”, ancora una volta. “Relazioni pericolose”, anche in questo caso. Conferma di un interventismo politico, intorno alle banche, non sempre foriero di buoni risultati. Per il credito e per i risparmiatori, per i clienti e per i contribuenti.
Infatti non ci sarebbe da gridare allo scandalo, se almeno queste invasioni di campo avessero risolto il problema. Non è così, purtroppo. E qui c’è un secondo problema: i rapporti tra finanza e mercato. E un secondo valore da tutelare: la trasparenza. Da luglio, l’aumento di capitale architettato da Jp Morgan è rimasto lettera morta. Il cda della banca, ora guidata da Morelli, ha sposato il progetto, anche se non se ne conoscono i dettagli. Nel frattempo, nell’ultima settimana, è tornato in auge il piano alternativo sponsorizzato da Passera. Nessuno sa perché, visto che era stato scartato in partenza. Nessuno conosce in dettaglio neanche questo, benché sia stato depositato lunedì scorso.
Le uniche cose certe sui due piani concorrenti, finora, sono le voci. Uno vale 5 miliardi, l’altro 3,5. Uno prevederebbe la conversione delle obbligazioni subordinate in azioni, l’altro il diritto d’opzione per i soci attuali. Uno prevederebbe la vendita delle sofferenze a prezzo stracciato a un veicolo apposito, l’altro le cederebbe a una società formata dai dipendenti della banca. Un’opaca cortina fumogena di ipotesi, dietro alla quale nessuno sa cosa si nasconda. Nessuno dei competitori ha firmato nulla, né una carta né tanto meno un accordo vincolante. Ma su queste chiacchiere, spesso messe in giro ad arte da un capitalismo senza scrupoli, il mercato scommette fior di soldi da una settimana. Nel solito, assordante silenzio della Consob, che assiste alla fumosa partita senza battere ciglio.
Speriamo che al cda della banca, convocato per lunedì prossimo, questa fitta nebbia si diradi. Sia sugli aumenti di capitale, sia sul piano industriale. Ma i dubbi sono tanti. Anche perché a decidere sui due piani A e B sarà un consiglio in sostanziale conflitto di interessi: come fa un amministratore delegato come Morelli (imposto dal governo, per volere espresso di Jp Morgan) a scegliere il piano di Passera? Se nella finanza esistesse la democrazia diretta, come in politica, insieme al referendum sulla riforma costituzionale sottoposto agli italiani bisognerebbe proporre ai soci Mps un referendum sui due aumenti di capitale. Ma la finanza, quella si, è una vera oligarchia.
Nel frattempo l’orologio corre. Il voto del 4 dicembre si avvicina. La partita bancaria è decisiva. Già scottato dal risanamento incompiuto delle quattro banche (Etruria, Marche, Carichieti e Cariferrara), preoccupato dalla crisi irrisolta delle popolari Venete, Renzi non può subire altre perdite. Sciogliere senza altri danni il “groviglio armonioso” di Siena, per lui, conta quanto una manovra economica. Ma deve farlo alla luce del sole. Assumendosi le sue responsabilità. Se salta una banca, salta il Paese. E se ci sono zone d’ombra, di qualunque natura, è ora che vengano illuminate. Il 23 dicembre 2015 il renziano Marcucci depositava alla Camera, per conto del Pd, il disegno di legge per la Commissione d’inchiesta sul sistema bancario. Il presidente del Consiglio esultava: «Ora finalmente andremo fino in fondo». È passato un anno. E della Commissione non c’è più alcuna traccia.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

La strada per firmare la pace tra politica e giustizia

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Prima
LE IDEE

GIULIANO PISAPIA
Il primo passo sarebbe tornare alla centralità del dibattimento in aula
LA MANOVRA finanziaria, gli abbracci di Obama, il libro di Icardi… Com’è ovvio che sia, le pagine dei giornali registrano i fatti, più o meno importanti dell’ultima ora e li consumano in fretta, stile fast food. Sarà perché sono un sostenitore dello slow food, mi pare che nei giorni scorsi sia stata persa un’occasione importante. Il fatto — anzi, i fatti — sono le recenti assoluzioni di Ignazio Marino e di  Roberto Cota. L’occasione persa è quella di partire da quei fatti per aprire finalmenteun dibattito sereno e costruttivo sui rapporti tra politica e giustizia. Invece è andato in scena il solito, logoro copione: la “Politica” da una parte, la “Giustizia” dall’altra, come in un tiro alla fune che con la giustizia e la politica non ha niente a che fare. L’occasione era buona: si tratta di sentenze di primo grado, che, se impugnate, potrebbero avere esiti diversi in appello o in Cassazione; di procedimenti penali che riguardano imputati appartenenti a partiti contrapposti; di procedimenti che non sono stati la causa delle dimissioni del Sindaco di Roma e della decadenza del Presidente della Regione Piemonte. Il che avrebbe reso più facile soffermarsi su princìpi, norme e regole che dovrebbero valere per tutti.
SEGUE A PAGINA 31
MA CHE, invece, spesso si trasformano in strumenti per attaccare l’avversario, non sulla base della realtà processuale, ma sulla base dell’appartenenza o della convenienza politica. Cerchiamo allora di mettere da parte le convenienze e di partire dai principi che devono guidare i nostri ragionamenti: la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, l’obbligatorietà dell’azione penale, la distinzione dei ruoli tra chi è “parte processuale” (Pm e avvocati) e chi ha il delicato e difficile compito di decidere sull’innocenza o la colpevolezza dell’imputato.
A differenza di chi sostiene l’accusa o è impegnato nella difesa, i giudici, lo dice la nostra Costituzione, debbono essere “terzi e imparziali” e decidere per la condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”, solo se vi sono prove certe o indizi “gravi, precisi e concordanti”. Il giudice deve assolvere l’imputato non solo se “manca la prova della sua colpevolezza” ma anche se “la prova è insufficiente o contraddittoria”. Pur con la prudenza che deve avere chiunque non conosca le carte processuali, si può dire che, nei due processi citati, l’accusa e la difesa hanno fatto il loro dovere: gli imputati si sono difesi nel processo, i giudici si sono dimostrati autonomi e indipendenti e non si sono fatti influenzare da niente e nessuno.
Eppure, ben pochi sono stati i commenti pacati. Anzi, le opposte vicende sono state l’occasione per dare fuoco alle polveri di una guerra mai terminata. Perché? Sarà un motivo di cultura politica; sarà una logica che induce a dimenticare che le garanzie debbono valere per tutti, e non solo per gli amici; sarà perché si antepone la propaganda alla ragionevolezza; sarà per opportunismo o per convenienza, ma è ora di uscire da una situazione che certo non fa bene alla democrazia, alla giustizia e alla politica (o meglio: alla buona politica). Val la pena, allora, di soffermarsi, ancora una volta, su temi che riguardano il passato, il presente e il futuro della nostra collettività. Quando si parla di persone indagate (il discorso vale evidentemente per tutti), l’iscrizione al registro degli indagati — che dovrebbe essere riservata e coperta dal segreto e di cui, invece, il diretto interessato viene spesso a sapere dalla lettura dei giornali — per molti è già indice di futura condanna (il responsabile della fuga di notizie, al contrario, rimane quasi sempre ignoto). Tale “pregiudizio” si rafforza in presenza di un’informazione di garanzia e, ancor di più, di rinvio a giudizio. E così, la presunzione di innocenza, sancita dalle Convenzioni internazionali, si trasforma in presunzione di colpevolezza e, spesso, diventa un’arma per attaccare l’avversario.
Troppi, ad eccezione dei sempre più rari garantisti non a corrente alternata, dimenticano, o fanno finta di ignorare, che l’iscrizione nel registro indagati è un obbligo di legge in presenza di un esposto, di una denuncia, di una notizia di reato, se non manifestamente infondate. Il Pubblico Ministero deve fare le opportune verifiche per poi potere, sulla base delle indagini effettuate, chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio. Quando sono necessari determinati atti che prevedono la presenza del difensore o di un consulente tecnico — ad esempio in caso di perizia, di perquisizioni, di interrogatori degli indagati — deve (non “può”, ma deve) essere notificata l’informazione di garanzia che, lo dice la parola stessa, è posta a tutela dell’interessato e del diritto “inviolabile” di difesa (art. 24 Cost.). Il difensore può così svolgere indagini difensive, chiedere al pubblico ministero di sentire testimoni, presentare memorie. Ebbene, malgrado sia evidente che tutto ciò è finalizzato a verificare se sussiste un reato e se vi sono elementi sufficienti per una richiesta di rinvio a giudizio, iniziano, se si tratta di un politico (ma non solo) le richieste di dimissioni. Si alimentano accuse anche infamanti, si ipotizzano fatti spesso del tutto infondati. Inizia quella gogna mediatica che travolge e stravolge la vita delle persone e delle loro famiglie.
Che fare per evitare, o quantomeno limitare, questa situazione? Come è possibile uscire da una perversione che danneggia la dignità delle persone e della giustizia? Come fare per evitare che vengano, con la pubblicazione di atti che non dovrebbero essere pubblici (anche a tutela delle indagini) — infangate, umiliate, distrutte, donne e uomini che, in molti casi, non sono neppure indagate o che riguardano la vita privata e che nulla hanno a che vedere con i reati ipotizzati? Il tutto aggravato dal fatto che possono passare mesi o anni prima che vi sia un rinvio a giudizio o una sentenza, prima che si sappia se quella persona è colpevole o innocente.
Un primo passo sarebbe quello di tornare alla centralità del dibattimento. In passato — i meno giovani lo ricordano — l’attenzione dei media, e quindi dei cittadini, si concentrava soprattutto sulla svolgimento del processo, quando era possibile conoscere non solo le tesi dell’accusa ma anche quelle della difesa. Le indagini erano più riservate e il segreto istruttorio più rispettato. Di questo si sta occupando il Parlamento e alcuni Procuratori della Repubblica sono già intervenuti per evitare che, nelle ordinanze di custodia cautelare (ormai diffuse anche via internet), siano riportati colloqui, telefonate o fatti non processualmente rilevanti, soprattutto se riguardano la vita privata. Certo c’è il problema dei tempi lunghi dei processi, e quindi del diritto di sapere in tempi “ragionevoli” se un indagato o un imputato è colpevole o innocente, e su questo bisogna impegnarsi per una giustizia più celere e di un’informazione basata sulla realtà e non sulle ipotesi e sui sospetti. Servono più risorse, servono leggi chiare e utili, non leggi, come in passato è accaduto, che allungano i tempi della giustizia e tendono ad ostacolare l’accertamento della verità. Vi sono proposte di legge che vanno in tale direzione. Già sono stati fatti, o si stanno facendo, passi avanti con il processo telematico, con i giudizi alternativi, con la depenalizzazione (che non significa impunità ma sanzione immediata e spesso più efficace), col prevedere, ad esempio, tempi certi dal termine delle indagini alla richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Evitare le polemiche strumentali aiuta e rafforza la possibilità di approvare leggi ampiamente condivise.
Sarebbe poi ora che, in presenza di fughe di notizie su atti riservati o coperti da segreto, si facciano i dovuti accertamenti per individuare i responsabili e si prendano gli opportuni provvedimenti, quantomeno disciplinari. Anche l’ordine dei giornalisti ha, in questi casi, un compito decisamente importante perché il diritto-dovere di informare non può trasformarsi nel diritto di non rispettare la legge o la deontologia. Infine, e questa è la maggiore responsabilità della politica, o meglio di alcuni politici, non si strumentalizzi la giustizia per conflitti interni o esterni ai partiti. Se ogni partito, in presenza di un procedimento giudiziario, si regolasse non sulla base delle convenienze ma di regole precise, previste possibilmente da uno statuto, forse non finirebbero le speculazioni ma quantomeno diminuirebbero le polemiche inutili e sterili che incrinano sempre di più la credibilità della politica. Senza dimenticare che vi sono fatti, condotte, comportamenti, che pur non avendo rilevanza penale, sono, e possono essere, altrettanto gravi (le eventuali dimissioni sono, in questi casi, più o meno opportune, e non riguardano il diritto penale ma la coscienza del singolo e della collettività).
Un’ultima considerazione che riguarda la presunta, o secondo alcuni effettiva, subalternità della politica nei confronti della magistratura. Indubbiamente vi sono stati momenti in cui questo è accaduto, anche a seguito di inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere una illegalità diffusa. Ma non bisogna generalizzare. La responsabilità penale è personale. Vi sono stati tempi in cui la magistratura era subalterna alla politica. Vi sono stati periodi in cui è avvenuto il contrario. Proprio perché politica e magistratura hanno compiti e ruoli diversi, è fondamentale, per una democrazia matura, che sia rispettata l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma è altrettanto fondamentale che si rispetti l’autonomia e l’indipendenza della politica. Il che non impedisce di criticare le sentenze o le leggi, ma senza pregiudizi e nel rispetto dei diversi ruoli.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’affondo di Renzi sul voto all’Unesco: basta no a Israele si rompa il fronte Ue

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LE SCELTE DELL’EUROPA

“Allucinante l’Italia astenuta su Gerusalemme” A rapporto Gentiloni, che dice: “Ora si cambia”
VINCENZO NIGRO
ROMA.
Matteo Renzi porta il governo italiano a rivedere il suo voto di astensione sulla risoluzione dell’Unesco contro Israele. Una risoluzione che il premier adesso rifiuta, definendola semplicemente «allucinante».
Il voto del 12 ottobre della Commissione cultura dell’Unesco condannava Israele per la gestione di Gerusalemme Est. Le contestazioni più gravi contenute dal documento sono due: innanzitutto il mancato rispetto dei luoghi sacri dell’Islam. Secondo, il crescendo di aggressioni e di misure illegali contro la libertà di preghiera dei musulmani palestinesi. Questa “decisione” viene messa periodicamente in voto all’Unesco, e ogni volta viene votata perché i Paesi arabi e i loro alleati hanno la maggioranza; e in più non c’è un meccanismo di veto come quello che può bloccare i voti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma nel testo votato (e confermato il 19) erano anche stati cancellati i riferimenti ai nomi ebraici del “Monte del Tempio”, mentre viene usata solo la dizione araba “Haram Al Sharif”, il nobile santuario.
Sul pronunciamento dell’Unesco, come molte altre volte, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva accettato la proposta degli Affari politici del suo ministero di far astenere l’ambasciatrice italiana Vincenza Lomonaco. Una posizione che permetteva all’Italia di non approvare questa offesa alle ragioni ebraiche, ma non bocciava apertamente i richiami a favore dei diritti dei palestinesi.
A qualche giorno dalla decisione, Renzi impone però il cambio di linea. E lo stesso Gentiloni spiega che «fino ad oggi abbiamo seguito questo voto quasi in automatico, da adesso cambieremo». Ma cosa è accaduto per convincere il premier alla svolta? Per due volte, prima della seduta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura che ha sede a Parigi, l’ambasciata di Israele a Roma era intervenuta sulla Farnesina, prima per chiedere di votare “no” e poi per protestare per la scelta di astenersi. Senza successo. A scuotere Renzi sono stati i titoli dei giornali, le proteste della comunità ebraica italiana, che si è rivolta con forza al governo, ai suoi ministri e anche al capo dello Stato, Sergio Mattarella.
La presa di posizione di Renzi fa effetto perché smentisce una scelta che poteva tranquillamente essere valutata e gestita diversamente in anticipo, una scelta che gli Affari politici della Farnesina avevano elaborato tenendo conto delle regioni dei palestinesi ma anche di Israele.
Non è un cambio di linea epocale per la nostra politica estera: l’Italia non è isolata, ma è assieme a Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Lituania ed Estonia.
Ritornando alla ricostruzione delle tappe che hanno portato al cambiamento, ieri mattina la presidente delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, aveva scritto una lettera aperta alla Stampa. Il presidente Sergio Mattarella a fine novembre farà una visita in Israele, e a questo viaggio ha fatto riferimento la Di Segni, invitando il capo dello Stato a rendersi conto della realtà di Gerusalemme. Sicuramente non sarebbe stato agevole per Mattarella visitare Gerusalemme con il timore di contestazioni degli israeliani o, quasi certamente, della comunità ebraica di origine italiana che vive a Gerusalemme.
Ieri Israele si è congratulato con Renzi. Prima il portavoce del ministero degli Esteri Emmanuel Nahshon, secondo il quale «la reazione di Renzi mostra che comprende il significato della verità storica e del tentativo fatto di cancellare parte della storia del giudaismo e della cristianità a Gerusalemme ». Ma poi in serata da Gerusalemme al premier italiano è arrivata la telefonata del premier israeliano Bibi Netanyahu: il grazie di Israele per la svolta.
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Mosul

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23/10/2016
la crisi

Uomini e bambini in una fossa l’Isis uccide 284 scudi umani fuoco a un impianto chimico
DAL NOSTRO INVIATO
MANGOUT (KURDISTAN IRACHENO).
Sempre più spietati, sempre più determinati, e forse più disperati: gli uomini del sedicente Stato Islamico sono pronti a commettere ogni atrocità e a usare ogni espediente per rallentare l’avanzata delle forze irachene e curde, sostenute dalla coalizione internazionale, su Mosul. Nella città assediata, hanno detto alla Cnn fonti dell’intelligence irachena, gli jihadisti hanno riunito e ucciso 284 persone, compresi bambini, che dovevano essere usate come scudi umani. Non è ben chiaro se gli ostaggi siano stati giustiziati a freddo perché cercavano di ribellarsi. Secondo le fonti della tv americana, i corpi sono stati gettati in una fossa comune nel cortile di un istituto agrario, nella parte nord della città. Per ora non c’è nessuna conferma, ma ci sono invece pochi dubbi sul fatto che l’Isis stia sentendo l’accerchiamento farsi sempre più soffocante.
Anche le reazioni “militari” sono scomposte: lo indica lo stesso attacco all’impianto di trattamento dello zolfo al-Mishraq a Qayyara, a sudest di Mosul, che ha provocato una nuvola tossica, uccidendo almeno due persone e costringendone almeno 250 a farsi ricoverare per gravi difficoltà respiratorie e creando difficoltà anche ai militari della vicina base americana, che sono stati costretti a indossare le maschere antigas. L’incendio era stato appiccato già tre giorni fa, ma ieri il vento ha spinto la nube sui centri abitati, dove i vapori velenosi si sono mescolati al fumo del petrolio acceso per contrastare i raid aerei. Anziani e bambini sono stati colpiti pesantemente, ma è difficile considerare come azione militare ben riuscita sul terreno un attacco del genere.
Altrettanto confusi sono gli obiettivi degli assalti di Kirkuk, che pure hanno avuto un bilancio sanguinoso, con 80 persone uccise, in prevalenza forze di sicurezza curde. Queste ultime hanno abbattuto almeno 56 militanti. Al di là dell’esigenza di alleggerire la pressione dei curdi su Mosul, unico possibile scopo degli integralisti potrebbe essere stato quello di liberare i compagni di lotta prigionieri nel carcere locale. Ma su questo le notizie non sono confermate: secondo una fonte della Difesa di Mosca, citata dall’agenzia Tass, gli uomini dell’Isis volevano invece liberare i detenuti per arruolarli alla loro jihad. In ogni caso, l’impresa non è riuscita. Fino a tarda serata le forze curde stavano dando la caccia agli ultimi fondamentalisti.
Ulteriore conferma al “fiato corto” dei guerriglieri di Abubakr al Baghdadi potrebbe venire dalle voci secondo cui lo stesso califfo, che proprio nella moschea di Al Nuri a Mosul si era proclamato successore del profeta, si sia fatto vedere i giorni scorsi nella sua capitale irachena per galvanizzare i combattenti. Non si sa se Al Baghdadi sia già ripartito per Raqqa o sia invece intrappolato in Iraq e deciso a guidare personalmente la lotta fino alla fine. Ma la scelta di comparire indica che anche il suo leader considera quella per Mosul la battaglia finale per la sopravvivenza dello Stato Islamico.
( g. cad.)


Franz Di Cioccio

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DOMENICALE

L’incontro. Progressivi


In epoca beat iniziò con i Quelli, poi ci provò con i Krel e infine, “sulla spiaggia di Spotorno” vide concretizzarsi il sogno della sua vita, “quello di avere la più fantastica delle band”. Nasceva così, quarantacinque anni fa, la Pfm. Oggi il suo batterista e leader ne ha settanta e grazie a lui la Premiata Forneria Marconi sta conoscendo una seconda giovinezza: “In realtà più che grazie a me è grazie a mia moglie e a internet: lei ci ha spinto a rimetterci in pista, la Rete ci ha fatti conoscere da un altro pubblico per come suoniamo oggi e non per come eravamo quarant’anni fa. E così adesso ai nostri concerti i più giovani superano i più vecchi”

ERNESTO ASSANTE

ROMA
C’È LA CANZONE D’AUTORE CHE SI RINNOVA, c’è la dance italiana che conquista il mondo, c’è il mainstream pop che domina le classifiche nazionali. E poi c’è il rock, con tante giovani band piene di idee e di entusiasmo. E con qualche “vecchia gloria” che a dispetto dell’età è ancora in grado di fare quello che molti giovani sognano soltanto di poter fare. È quello che sta accadendo alla Premiata Forneria Marconi: quarantacinque anni di storia sulle spalle e, non sembri un’ovvietà, non dimostrarli. Così come non dimostra i suoi settanta Franz Di Cioccio, batterista, cantante, anima e cuore della band dai suoi esordi a oggi. Soprattutto quando lo si vede in scena con la Pfm travolgere tutti con la sua energia, il suo entusiasmo, in definitiva la sua bravura. «L’età? Ma quella non conta, conta solo la musica», ci dice, e ha ragione, soprattutto se è quella di una band che ha scritto pagine importanti della storia della musica italiana, che ha collaborato con Lucio Battisti e con Fabrizio De André, che ha conquistato le classifiche non solo in Italia ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, e realizzato album leggendari come Per un amico o L’isola di niente. Oggi la Pfm sta vivendo una seconda gioventù, con una nuova formazione, e soprattutto un pubblico ai concerti in cui i giovani sono più numerosi degli adulti. La forza musicale è tutta concentrata nel live: «Ai nostri concerti il pubblico si rinnova sempre», ci spiega Di Cioccio, «ci sono i fan storici, quelli che amano la nostra musica e non hanno mai smesso, ma anche quelli che ci hanno scoperti con i dischi del papà e quelli che hanno visto un post su Facebook. Devo dire che però anche noi ci rinnoviamo: non facciamo mai lo stesso concerto. Siamo tornati in Italia da pochi giorni dopo un tour europeo, era tanto che non ne facevamo uno. Abbiamo suonato in club veramente belli. L’anno scorso eravamo stati negli Usa e in Canada, e devo dire che anche lì era andata molto bene. Direi che facciamo un bell’effetto. Possiamo proporre ogni sera cose differenti, e questo rende ogni show interessante anche per chi ci ha già visti. Fare live in questo modo significa che il calendario è sempre aperto: prepari uno spettacolo, la gente viene, comincia il passaparola, e poi le cose vanno avanti. Insomma, per capirci: non siamo come quelle vecchie band che fanno un tour ogni due o tre anni e poi è finita lì».
Di Cioccio sta lavorando con grande passione — c’è da dirlo? — alla riedizione degli album della Pfm, con un primo cofanetto uscito nel 2012 e che raccoglieva i primi due album oltre molte rarità e inediti, e un nuovo cofanetto, Marconi Bakery, con gli album del 1973-1974, Photos of Ghosts, L’isola di niente e The World Became the World, dai quali risalta ancora la straordinaria originalità della band: «I dischi erano diversi l’uno dall’altro, e riascoltandoli ora si vede che c’era un percorso preciso che avevamo intrapreso e che seguiamo ancora. Eravamo contemporanei, e forse alle volte eravamo persino in anticipo, ma mai fuori tempo, eravamo al centro di quello che accadeva all’epoca. E così alcuni dei nostri album sono rimasti freschi, altri si sono addirittura rivalutati, altri ancora si sente che rispecchiano gli anni in cui sono nati, ma devo dire che sono invecchiati bene. Avevamo e abbiamo ancora un approccio che è internazionale e italiano, perché in realtà non ci siamo mai neppure posti il problema se dovessimo restare italiani o lasciarci contagiare da quello che ascoltavamo: mettevamo e mettiamo insieme i nostri ascolti con la nostra naturale vena mediterranea. E questo ci ha resi diversi dagli altri. Eravamo rock ma facevamo anche canzoni, eravamo una band progressive ma entravamo in altri ambiti, ci siamo avventurati in ogni campo musicale. Diciamo pure che ci è sempre piaciuto giocare con la musica senza badare agli schemi e alle etichette».
Di Cioccio è sempre stato al centro della Premiata Forneria Marconi, con la sua vivacità, la creatività, la voglia di non stare mai fermo, fisicamente e culturalmente: «Ho guidato la band da dietro, seduto alla batteria. Poi nelle scelte: la maggior parte dei progetti, delle produzioni, delle strategie, dei tour, delle copertine, parte tutto da me. Forse perché sono abruzzese, e perché sono un entusiasta di natura, difficile vedermi triste. E poi sono un randagio musicale, e questo significa che mi piace il rock, il rap, il funky, l’heavy metal, il jazz, mi piace la canzone. La musica è emozionante, è un dono, una delle cose belle della vita. Quelli che hanno lasciato la band lo hanno fatto perché avevano finito la benzina, avevano bisogno di altro. Ma per me la Pfm è tutto. A patto, ovvio, che si suoni bene». Già, e quali sono le qualità di un buon musicista? «Innanzitutto deve saper ascoltare gli altri. Suonare non è solamente un fatto tuo personale, non puoi fare tutto da solo. Il musicista bravo è quello che non ascolta se stesso quando suona, tanto lo sa quello che sta facendo, ma è quello che ascolta gli altri, solo così tutto si incastra. Ancora oggi noi ci ascoltiamo, facciamo prove estenuanti perché tutto sia messo perfettamente a fuoco. Del resto la nostra leggenda è questo che vuole. Guardavo dei filmati tempo fa, noi che suoniamo all’Old Grey Whistle Test, oppure alla Bbc a Londra: so che non dovrei dirlo, ma è pazzesco come facevamo tutto davvero bene. E oggi uguale. Io metto molta cura in quello che faccio, sono sempre stato così, perché credo che le storie belle vadano mantenute, curate, coccolate. Prendi questo cofanetto: dentro ci ho messo tutta la passione che ho perché venisse fuori un prodotto storicamente corretto».
La storia del gruppo è legata a doppio filo alla storia di Franz, è lui che ha dato il via ai Quelli, in era beat, poi ai Krel e quindi alla Pfm. Le storie su come nascono le band sono tutte diverse, e tutte leggendarie, dall’incontro dei Doors sulla spiaggia di Los Angeles a quello degli Stones nella stazione della metropolitana. E la Pfm? «Volevo semplicemente fare una band e avevo un’agendina piena di nomi. Ho iniziato con Franco Mussida e poi uno alla volta sono arrivati tutti gli altri, Flavio Premoli per esempio. Fino all’incontro storico, quello con Mauro Pagani, proprio sulla spiaggia, quella di Spotorno. Ma anche l’arrivo di Patrick Dijvas è stato bello: stavamo facendo una session, io, Demetrio Stratos, Alberto Radius, Paolo Tofani, Mauro Pagani. Arriva Dijvas e Demetrio lo chiama in scena, non aveva lo strumento e io l’accompagno a prendere un basso. Mi stava sul cazzo, non mi piaceva, ma appena si mette a suonare capisco che aveva “quella cosa” che mancava alla Pfm. Cominciammo così a lavorare tutti insieme, il mio sogno iniziava a prendere forma: il sogno di una band fantastica, che è poi il sogno che cerco ancora oggi di tenere vivo. Far ripartire la Pfm è stata una grande idea, per la quale mi ha aiutato moltissimo mia moglie Iaia. Nessuno ci credeva. E invece. Per prima cosa abbiamo organizzato un tour in Giappone, tutto via internet. Perché è vero che in Rete ci sono già i video del nostro passato, ma noi volevamo che tutti ci vedessero oggi. È stata la svolta: tutti hanno potuto vedere quanto eravamo vitali e creativi, anche più bravi di come eravamo da giovani. E così, non appena tornati dal Giappone, la Pfm è ripartita alla grande». Ovviamente dopo la separazione con Franco Mussida oggi c’è una nuova formazione: «Sì, certo, ma formazione nuova vuole anche dire musica nuova, un modo diverso di suonare anche le cose più vecchie. Entrare nella band dopo Mussida non era certo una cosa facile. Ma noi sapevamo che non si sostituisce un elemento con un altro che gli assomiglia. Ti serve invece uno che ti fa fare uno scatto in avanti, ed è così che è successo con il nostro nuovo chitarrista, Marco Sfogli: tu pensa, un napoletano nel cuore della Pfm, un ragazzo che viene dal nuovo prog...». In scena non c’è la Pfm 2.0, ma la Pfm e basta.
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‘‘ERAVAMO ROCK MA FACEVAMO ANCHE CANZONI, AMAVAMO IL PROGRESSIVE MA ENTRAVAMO IN ALTRI AMBITI, NASCEVAMO SUL MEDITERRANEO E CI AVVENTURAVAMO OVUNQUE. NON CI SONO MAI PIACIUTE LE ETICHETTE
UN GIORNO STAVAMO SUONANDO CON DEMETRIO STRATOS, ALBERTO RADIUS, PAOLO TOFANI E MAURO PAGANI. ARRIVA PATRICK DJIVAS E DEMETRIO LO CHIAMA A SUONARE CON NOI. MI STAVA VERAMENTE SUL CAZZO, MA APPENA SI MISE A SUONARE FU SUBITO AMORE
OGGI C’È UNA FORMAZIONE NUOVA E QUESTO SIGNIFICA UN MODO DIVERSO DI SUONARE. PERCHÉ NON SI SOSTITUISCE UN ELEMENTO CON UNO CHE GLI ASSOMIGLIA, TI SERVE UNO CHE TI FA FARE UNO SCATTO IN AVANTI

Perché i rifiuti sono il frutto del governo di un territorio

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23/10/2016
Prima
L’INTERVENTO

GIANFRANCO AMENDOLA
CARO direttore, “Il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto”: questa massima di elementare saggezza, coniata nel Parlamento europeo, viene troppo spesso dimenticata quando si parla di lotta ai rifiuti. Eppure essa costituisce la prima delle opzioni che l’Unione europea ed il nostro paese impongono nella scala di priorità della normativa ambientale, lasciando il recupero dei rifiuti solo al secondo posto.
Insomma, meglio prevenire, e cioè, come dice anche la nostra legge, adottare misure per limitare la quantità dei rifiuti, evitando che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi rifiuto.
Specie e soprattutto a Roma, dove la situazione dei rifiuti è ormai al collasso. Non solo perchè la politica di settore è attualmente incentrata sul trattamento, con totale carenza delle fasi successive (un rifiuto, pur dopo il trattamento, resta un rifiuto); non solo perchè la raccolta differenziata (quella vera) è ancora troppo scarsa; non solo perchè occorre recuperare i ritardi di una pubblica amministrazione che, per decenni, ha troppo spesso operato al servizio del profitto dei privati. Ma soprattutto perchè si è aspettato troppo e adesso, se si vuole evitare che Roma (magari, con l’eccezione del centro storico) diventi un enorme immondezzaio, sono necessari interventi drastici, immediati e visibili che facciano capire ai romani che le cose stanno cambiando, scoraggiando anche un certo tipo di lassismo indotto dalla vista dell’attuale disastro.
Ma allora, che fare subito?
SEGUE A PAGINA VI

Nel 2017 gli USA si riprenderanno il mondo

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Il caos attorno a Russia, Iran e  Arabia Saudita è frutto delle scelte di Obama. Dopo le elezioni, Washington chiuderà ogni accordo economico rimasto in stand-by per tappare i vuoti di potere. Il ruolo dell'Italia è più importante di quanto s'immagini.


di Carlo Pelanda
 L’aumento dell'instabilità globale dipende, semplificando, dalla riduzione del potere imperiale americano che ha lasciato spazio a nuove potenze regionali e che non riesce più a imporre convergenze ne agli alleati né alle nazioni rilevanti del pianeta. ll mondo e in transizione tra la line della Pax Americana e una nuova configurazione non prevedibile, ma che al momento si segnala come tendenza verso il disordine: la formazione di tanti blocchi regionali in potenziale conflitto sia militare sia economico tra loro. Da un lato, non È una sorpresa, ma il semplice ritorno alla «normalità storica» sospesa dal 1945 in poi dall'anomalia di un ordine mondiale basato su una potenza unica o comunque su un bipolarismo che ha sortito un effetto simile di limitazione dei conflitti (rilevanti) e di compressione delle volontà di potenza 0 protezionistiche del resto delle nazioni.

Dall'altro, se questa tendenza non fosse invertita verso un nuovo ordine, la sorpresa dei cittadini che vivono in democrazie diventate ricche e debellicizzate grazie all'ombrello di protezione economica e militare statunitense sarebbe quella distruttiva di subire gli impatti impoverenti e di sangue causati dal dissolvimento dell'ordine mondiale amerocentrico. Questo vi deve entrare in testa. lettori, ma senza fasciarla perché lo scenario non è ancora determinato e  quindi c'è la possibilità di ricostruire un ordine mondiale che perpetui l'anomalia storica positiva in atto dal 1945, anche se in nuovi modi.

Inoltre, fortunatamente, il mercato non ha ancora scontato lo scenario di disordine mondiale - cioè assenza di un prestatore di ultima istanza in caso di guai globali, frammentazione e ri-nazionalizzazione protezionista del mercato internazionale e conseguente depressione, ecc. - anche perché c'è un residuo del vecchio ordine che tiene insieme il sistema pur subendo le scosse della nuova incertezza: la fiducia economica sul futuro non e crollata, ma ha bisogno di novità positive per rinforzarsi. Le cronache danno enfasi al tentativo della Russia di allargare aggressivamente la propria influenza riempiendo il vuoto lasciato dall'America, così come fa l'Iran con ambizioni di potenza regionale in conflitto con l'Arabia, vera causa del conflitto siriano, così come la Cina sta espandendo il proprio potere nel Pacifico per toglierlo all'influenza statunitense. Ma queste e altre situazioni di instabilità sarebbero risolte se si riformasse un centro di potere grande abbastanza per riprodurre una pax globale.

Molti sostengono che la soluzione è multilaterale ed entro il G20. Ma è un`illusione: il G20 è un forum che non può diventare un centro di governance globale a causa della divergenza di interessi trai suoi partecipanti. Più realistico è puntare l'attenzione sulla capacità dell`America di interrompere la propria ritirata dal mondo e dell'Europa di convergere con essa. Assieme alle democrazie più simili - Giappone. Australia, Canada - per formare una Nova Pax come successore della Pax Americana: in sostanza, una più forte alleanza politica ed economica tra le nazioni del G7, inclusiva. Obama ha tentato di costruirla come area di mercato integrato tra democrazie sul lato atlantico e del Pacifico, incernierate dall`America. In questo disegno, avviato nel 2013, c'è la consapevolezza che |`America non possa più essere locomotiva 1 guardiano unici del globo.

Ciò fu già chiaro a Kissinger nel 1973, quando abbozzò il concetto d’impero condiviso. E a Bush nel  2000 quando contrappose al globalismo di Bill Clinton la dottrina dell`interesse nazionale. E fu chiarissimo quando Bush stesso ingaggio l`America in un impegno diretto globale. per reazione agli attentati del 20-01, che eccedeva le sue capacità economiche e di tolleranza alle bare, generando la necessità di condivisione di costi e sforzi imperiali. Nel 2016 il progetto di «impero condiviso» è stato bloccato dai dissensi contro i trattati di libero scambio Tpp, sul Pacifico e in funzione anticinese, e Ttip, euroamericano e in funzione antirussa. Hillary Clinton probabilmente vincerà le elezioni e ripristinerà il programma di «re-ingaggio» dell`America nel globo. Oscurato in campagna per non avvantaggiare l’isolazionismo di Sanders e Trump.

Il reingaggio dovrà necessariamente rilanciare i trattati sopra citati, pur modificati, per creare un'alleanza G? estesa con solida e reciprocamente bilanciata base economica. L’intensità dipenderà dalla maggioranza nel Congresso ma Clinton tenterà  questa strada. Se così, dovremo chiederci come creare le condizioni di consenso nell'Ue per ricostruire la convergenza euroarnericana. Ed essere consapevoli che l'Italìa, sia come presidente di turno del G7 nel 2017 sia come membro Ue, avrà un peso fortissimo nelle scelte. Il punto: il mondo e in bilico tra nuovo ordine e caos, l'Italia è rilevante nello scacchiere e quindi il pensiero politico e quello nelle teste dei lettori dovrebbero essere più consapevoli della co-responsabilità ordinatrice  di Roma.


www.carlopelanda.com

I POVERI TRADITI DALLA CARITAS

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LETTERE

GENNARO MATINO

LA cultura contemporanea è specchio di un mondo dilaniato da nuove emergenze, nuovi conflitti e nuove povertà, dalle contraddizioni del potere economico, dalla logica del possesso che determina la cultura della morte che a volte si manifesta come bullismo, violenza, volgarità, come abbandono degli anziani ed emarginazione dei più deboli. L’ultimo dossier della Caritas Italiana: “Povertà plurali, nell’orizzonte della ripresa economica” è una drammatica ma realistica cartina di tornasole del disagio del vivere quotidiano che soprattutto i giovani del Sud provano sulla propria pelle. Non solo disoccupazione, che certo resta il dato più allarmante per una popolazione giovanile descritta senza speranza, ma di una progressiva e inarrestabile perdita di futuro che indebolisce la struttura stessa dello Stato. La rassegnazione alla propria condizione di limite porta giovani e non a cercare rifugio in mense e dormitori. Spesso la strada, e solo la strada, resta l’ultima frontiera di chi non ha neppure più un tetto sotto cui vivere. Un lavoro straordinario quelle delle Caritas sparse sul territorio nazionale che, insieme alle mille articolazione del volontariato, fungono da azione di supplenza alla mancanza di un progetto visionario di giustizia sociale dell’Italia e dell’Europa stessa, quasi a dichiarare la rassegnazione di fronte all’inganno dell’economia post capitalistica e finanziaria capace di dividere più che affratellare. Tuttavia, proprio il dossier della Caritas, che senza timore analizza lo stato presente della povertà e descrive la divisione malata tra chi ha tanto e chi nulla, manca di una parte importante e decisiva per la credibilità stessa di tutto il testo. Manca, infatti, di una lettura critica delle strutture di assistenza della stessa Caritas che dovrebbe chiedersi se esistano o meno anche sue responsabilità per non essersi data un piano organico di intervento sulla povertà. Dovrebbe interrogarsi sul perché non si è escogitato un processo unitario di liberazione degli oppressi, lasciando all’iniziativa di singoli soggetti locali, improvvisati, emotivi, la fatica degli interventi caritativi; perché sono stati permessi, anche con l’uso dell’otto per mille, finanziamenti a pioggia, senza la dovuta verifica successiva e il controllo meticoloso delle spese. Bisognerebbe capire perché siamo pronti a rispondere all’emergenza, quando lo siamo, e non invece a saperla superare, con strategie di inclusione, quantomeno in una campionatura apprezzabile, di quei soggetti svantaggiati che a noi si rivolgono. Domande che potrebbero provocare oltre e chiedersi ancora se il volontariato in carico alle Caritas, formato dalla comunità ecclesiale, sia primariamente volontariato puro o se invece, in assenza di lavoro, sia stato trasformato in nuova modalità occupazionale, ricercata da tanti disoccupati con competenza o meno, consentendo a cooperative, o giù di lì, di darsi una ragione sociale solo a scopo di sbarcare il lunario, anzi nate proprio con lo scopo primario di intercettare risorse necessarie alla propria sussistenza, più che per la liberazione degli oppressi. Senza parlare di quel sottobosco di faccendieri collaterali ad associazioni, sigle, enti che senza storia pregressa, senza esperienza sul campo, vengono create ad acta quando si tratta di accedere a finanziamenti pubblici, ottenuti più che per la loro competenza e per l’affidabilità dei progetti che dovrebbero essere accompagnati dall’idealità di servizio, per l’antico costume del clientelismo partitico che cerca consensi e benedizioni clericali. Per la Chiesa, per le sue Caritas, per chi meglio dovrebbe gestire l’otto per mille a favore degli ultimi, non è solo problema di gestione di mezzi e di rispetto delle procedure, è questione di Vangelo, del suo ruolo nel destino della nostra terra, a Napoli come altrove. Ci sono decine di migliaia di parrocchie sparse sul territorio italiano, in media una parrocchia per ogni mille abitanti, ordini e istituti religiosi, scuole, giornali, televisioni, radio, siti ed editoria, centri culturali e informativi, opere pie e strutture di carità e assistenza, una presenza impressionante di strutture ecclesiastiche nel tessuto territoriale di una nazione che tuttavia sembra non riesca a dare soddisfazione al suo primo scopo: comunicare la fede con la testimonianza della carità, vivere la carità, sempre. Di bene se ne fa tanto, ma tanto se ne farebbe ancora di più e meglio se, di fronte all’aggressività di un potere finanziario che spesso contagia e contamina anche il mondo ecclesiale, le Caritas e il volontariato, si avesse il coraggio di resettare strutture, di correggere meccanismi perversi che al capitale umano preferiscono il capitale economico.
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“ SPESE

Un parroco “ribelle” per i ragazzi della Sanità

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VOLTINAPOLI
Don Antonio Loffredo.
Amico di Ermanno Rea che nel suo romanzo “Nostalgia” gli cuce addosso la figura di “Don Rega”, il sacerdote guida la basilica di Santa Maria e ha dato avvio alla Fondazione San Gennaro
CONCHITA SANNINO
«MI CONDANNARONO in due righe. “Non è portato per lo studio. Meglio il lavoro”. Conservo ancora quel foglio, mia madre ne pianse. Io no: ero demotivato, indisciplinato». Don Antonio Loffredo, anche ora, non resiste nei confini dell’antica sacrestia. Quante volte avrà rivisto nei suoi ragazzi il ribelle che era. «In più, avevo una maestra, posso dire? Bizzoca». Ride. Una vulcanica, ruvida giovialità che ormai è volto di Napoli, anche molto lontano da qui.
Quarantacinque anni dopo quella pagella, don Loffredo, laureatosi in Teologia con lode, è parroco-guida della Basilica di Santa Maria alla Sanità, artefice con altri - laici come Ernesto Albanese o religiosi come padre Alex Zanotelli d’una rivoluzione del riscatto, è motore della Fondazione San Gennaro con capitale di oltre un milione di euro, nominato Cavaliere della Repubblica, e accolto da Papa Francesco due volte. E, ora, nei panni letterari di don Luigi Rega è una delle figure chiave che attraversa il romanzo (postumo) di Ermanno Rea: “Nostalgia”, ritorno a un rione- mondo, storia di radici e speranze tra due efferati delitti. Non a caso Carlo, il figlio dello scrittore scomparso a settembre, porterà sabato prossimo, il 29, le ceneri di Rea per un saluto laico, nel chiostro. Dall’amico prete presso cui, da ateo ex comunista, aveva ritrovato autentica ispirazione, amicizie profonde, forse l’impossibile riconciliazionecon Napoli.

Don Loffredo, com’era questo legame tra lei e Rea?

«Confronto, condivisione, curiosità. Insomma, siamo diventati amici. Ermanno mi aspettava quassù (col dito indica il B&b che sovrasta i locali affrescati della chiesa, ndr). A sera, salivo e mi fermavo su questi suoi occhi incredibili: si faceva raccontare, ma andava anche in giro, ascoltava e interrogava secondo la sua cifra di reporter. Stavamo ore davanti a una pizza,io con le sigarette, lui con sguardo acuto, che era partecipe dei nostri progetti, delle vite che qui scommettono ogni giorno dedizione, entusiasmo».

“Don Rega”, quindi, è lei ma è anche l’incarnazione di quelli che raddrizzano, rammendano, spingono.

«Intanto Rega era l’antico nome dei Rea, come lui mi confidò. Mi piace pensare che Ermanno vi abbia proiettato un suo alter ego, oltre a quello del protagonista Felice. Ma è fuor di dubbio che dentro quel prete ci sia il cammino di tanti, l’impegno di padre Alex, la fatica di padre Giuseppe».

Lei arriva alla Sanità nel 2000, con la condanna a don Rassello, che fu prete anti-clan.

«Tempi durissimi: ero il cappellano a Poggioreale ma dovetti piantare i piedi perché recapitassero il Vangelo in cella, a Peppe. Non dimenticherò la sua gratitudine, dopo. Continuo a pensare che si azionò una clamorosa macchina del fango. Fu allora che don Bruno Forte mi chiamò a una sfida: “Don Rassello ha avuto grandi intuizioni, tu puoi raccoglierle”. Accanto alla chiesa, c’era anche una figura storica del Pci locale, ma per noi soprattutto uomo di grande carità, Rashid Kemali».

La vostra mobilitazione ha salvato alcune vite. Lei che ragazzo era?

«Ribelle, indisponente. Alle medie, dissero ai miei: “Niente studio. Se proprio volete, una scuola professionale”. Ma proprio l’incontro con un professore del Tecnico mi fulminò: aveva una passione civile e una cura per gli altri, era stato tentato di farsi prete».

Suo padre non voleva, era un imprenditore...

«Mio padre si fece da solo a 18 anni. In casa di mia madre erano così poveri e dignitosi che mi raccontavano sempre questa scena di puro teatro eduardiano. Lei riceve i primi gioiellini dal fidanzatino in ascesa, ma poiché suo padre fa l’antifascista (anche) per non lavorare, sua madre non sa come andare avanti e si impegna quei piccoli oggetti con la promessa che un parente che lavora al Banco glieli renda indietro il sabato: perché la figlia possa sfoggiarli con l’innamorato. Ma spesso il parente non mantiene la promessa. Allora mia madre, pronta, si infila il pigiama e si fa trovare a letto: la parte della malata per non sfigurare col futuro marito».

Lei ebbe vocazione travagliata, un lacerante fidanzamento...

Sorride. «Lo ha letto da Rea, vero? I grandi autori sono capaci anche di furti con sublime abilità».

Le capita mai, dal rione dove anche ieri hanno sparato, dove si muore da innocenti, di arrabbiarsi col suo Signore?

«La rabbia arriva, le fragilità ti fiaccano, ma le “depressioni” durano poco. Senza retorica, chi sta con Dio sta vicino alla sorgente: io ogni sera, so che posso e devo lasciare a lui tutto il mio carico. La preghiera è questo immergersi. Scherzando, dico che uno dei motivi per cui accetto il celibato è la bellezza del silenzio della sera».
Scena dell’altra mattina, davanti alla chiesa: ragazzi lanciano petardi ai militari, che li rimbrottano, ma le mamme scendono a difenderli.

Quanti miracoli educativi servono?

«Siamo in preda a venti di odio e qualunquismo. Tutti convinti che i politici sono tutti corrotti, che le divise sono violenza e i preti tutti pedofili. Se un docente valuta con severità un allievo, i genitori laureati o analfabeti reagiscono allo stesso modo: i primi con le carte bollate, gli altri con le mazzate».

Lei, padre, crede ancora nella politica, a parte quella della Sanità?

«Certo. È la forma più alta di carità, diceva Paolo VI. Noi, anche qui adesso, siamo la politica».

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Nel 2011 Berlusconi era pronto a far uscire l'Italia dall'euro

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A riferirlo è stato l'economista Hans-Werner Sinn, ex direttore dell'Ifo Institute for Economic Research di Monaco. Per lo studioso la nostra situazione è disperata: "In Italia si discute tanto, ma non si agisce per cambiare le cose"


Nel 2011 "Berlusconi aveva avviato trattative riservate per chiedere l'uscita dell’Italia dall’euro, perché lui e altri rappresentanti dell’economia italiana non vedevano alternative a questo". A dirlo, in un intervista alla Welt, è l'economista Hans-Werner Sinn, già direttore dell'Ifo Institute for Economic Research di Monaco. E per il docente dell'Università di Monaco dal 2011 la situazione economica del nostro paese non è migliorata, continua a non essere competitiva e "e negli ultimi dieci anni non ha nemmeno fatto sforzi per diventarlo": "Il livello dei prezzi era eccessivo già prima della crisi, e da allora non è sceso. Anzi, dal 1995 i costi di produzione sono rincarati del 42 per cento rispetto a quelli tedeschi. I prezzi dovrebbero scendere, ma non succede nulla: in Italia si discute tanto, ma non si agisce per cambiare le cose"."L’industria produce il 22 per cento di meno rispetto al periodo precedente la crisi", riporta nella sua analisi Sinn, che aggiunge: "La disoccupazione giovanile è quasi al 40 per cento, i fallimenti aumentano e, secondo un calcolo del Fondo Monetario Internazionale i prestiti non performanti sono cresciuti raggiungendo l’80 per cento del patrimonio delle banche. Un paese non può sopportare a lungo una situazione così catastrofica. Mi chiedo davvero quanto il paese riuscirà a resistere nell’euro: la metà dei cittadini ormai lo vuole lasciare. E’ il valore più alto di tutti i paesi dell’Eurozona!”.

L'economista Hans-Werner Sinn


E non solo l'Italia si trova in questa situazione. "La situazione economica dell'Europa del sud ha prodotto una bolla creditizia inflativa che scoppiando ha messo in crisi le economie. Oggi la disoccupazione è elevatissima e la gente delusa dell’euro. Al contempo, i creditori dell'Europa settentrionale sono irritati di dover sostenere il meridione con transfert e fondi di salvataggio". Sono questi i motivi che spingono l'economista a dire che "tra dieci anni l’Eurozona esisterà ancora nella sua forma attuale: non scomparirà, ma alcuni paesi la lasceranno, ed è giusto che sia così. La probabilità che l’Italia continui a farne parte cala di anno in anno. Il paese non riesce a gestirsi con l’euro"

Un castello di carte chiamato “euro”

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I fendenti degli economisti Issing e Sinn puntano al Qe di Draghi

di Redazione 




Un giorno, questo castello di carte crollerà”, ha detto Otmar Issing, intervistato nel fine settimana dalla rivista Central Banking. L’economista tedesco è considerato il “padre fondatore” della politica monetaria della Banca centrale europea, di cui è stato il primo capo economista. Cosa succederà nei prossimi mesi? “Realisticamente assisteremo al tentativo dei leader dell’Eurozona di cavarsela vivendo alla giornata, passando da una crisi all’altra. E’ difficile prevedere quanto a lungo questa situazione possa continuare, ma certo non potrà durare all’infinito”. Issing critica sia la Commissione europea, per il suo lassismo fiscale, sia la Banca centrale europea. Quest’ultima, con le sue politiche espansive, secondo Issing si è posta su “un piano inclinato”. Tanto interventismo cancella la “disciplina di mercato” che teoricamente i mercati finanziari dovrebbero esercitare nei confronti dei paesi troppo spendaccioni o poco riformatori.

Allo stesso tempo “un’uscita dal Qe è sempre più difficile, visto che le conseguenze potrebbero essere disastrose”. Alla posizione di Issing, che è quella di un europeista con una cultura di classica matrice ordoliberale tedesca, si può affiancare quella di un altro economista quotato in Germania come Hans-Werner Sinn, espressa in una intervista alla Welt. Il titolo è tutto un programma: “Tra poco l’Italia non riuscirà più a resistere nell’euro”. Svolgimento: “Il progetto dell’euro è fallito: doveva portare la pace, invece ha creato tensioni tra i paesi europei. Nel sud dell’Europa ha prodotto una bolla creditizia inflativa che scoppiando ha messo in crisi le economie. Oggi la disoccupazione è elevatissima e la gente è delusa dell’euro. Al contempo, i creditori del nord sono irritati di dover sostenere il sud con transfert e fondi di salvataggio”.

Continua Sinn: “La probabilità che l’Italia continui a farne parte cala di anno in anno. Il paese non riesce a gestirsi con l’euro. L’economia italiana non è competitiva e negli ultimi dieci anni non ha fatto sforzi per diventarlo. (…) Dal 1995 i costi di produzione italiani sono rincarati del 42 per cento rispetto a quelli tedeschi. I prezzi dovrebbero scendere, ma non succede nulla: in Italia si parla tanto, ma non si agisce. Non sono favorevole all’uscita dell’Italia, tutt’altro! Ma per farla rimanere servirebbero condizioni completamente diverse da quelle attuali. I dubbi dell’establishment italiano sull’euro continuano ad aumentare. Berlusconi aveva avviato già nel 2011 trattative riservate per far uscire l’Italia dall’euro, perché lui e altri rappresentanti dell’economia non vedevano alternative”. Quelle di Issing e Sinn sono opinioni autorevoli, da ponderare, ma in questa fase puntano soprattutto a delegittimare Mario Draghi e il suo lavoro alla Banca centrale europea. La battaglia per chiudere i rubinetti del Quantitative easing è iniziata, Roma farà bene a seguirla con attenzione.

La corsa populista verso il referendum

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Prima
IL PUNTO
STEFANO FOLLI

COME era prevedibile, la campagna per il referendum si sta trasformando in una rincorsa demagogica. Di qui al 4 dicembre si tenderà a discutere sempre meno nel merito della riforma Renzi-Boschi e sempre più si cercheranno scorciatoie per conquistare il consenso dell’opinione pubblica.

OVVIO che su questo terreno i Cinquestelle sono quasi imbattibili. Non a caso la proposta di dimezzare con un taglio netto gli stipendi dei parlamentari è confezionata come un pacchetto esplosivo in grado di colpire in più direzioni.
In primo luogo serve a rilanciare il profilo pubblico dei piccoli leader in affanno, bisognosi di un po’ di maquillage. Di Maio, certo, ma anche Di Battista. Grillo li lascia galoppare in libertà, trattandosi di un tipico tema anti-casta, un cavallo di battaglia del M5S da cui è difficile farsi disarcionare. Senza troppa fatica si possono mettere sulla difensiva le altre forze politiche e il Pd in particolare, ossia il vero bersaglio dell’operazione. In fondo è un gioco di specchi, perché è tutto da dimostrare che parlamentari pagati la metà lavorerebbero meglio. Al contrario, c’è l’evidente rischio che sarebbero sostituiti alla prima occasione da altri, dequalificati e meno preparati, ma proprio per questo disposti ad accettare un compenso economico più modesto.
Ovviamente la proposta dei Cinquestelle non andrà in porto, né prima né dopo il referendum. Ma forse avrà ottenuto il suo scopo: ravvivare il sentimento anti-sistema che serpeggia tuttora nell’opinione pubblica e rendere più complicato per Renzi indossare l’abito del “grillino” in doppio petto. Quest’ultima è infatti una tentazione alla quale il premier non sempre sa resistere. Consapevole che la campagna del No si alimenta anche con i temi della cosiddetta anti-politica, il presidente del Consiglio tende ad ammiccare in quella direzione. Basti pensare a quei manifesti che recitano all’incirca: “Vuoi ridurre il numero dei politici e il loro costo? Basta un sì”.
Questo significa scherzare con il fuoco. Sul terreno della guerra populista alla “casta”, i Cinquestelle avranno sempre un vantaggio. E non sarà sufficiente prendersela con le assenze e i rimborsi spese di Di Maio, così come è illusorio immaginare che i pasticci della Raggi a Roma producano a breve la crisi del movimento. Sullo sfondo della stagnazione economica e con l’Unione europea che contesta le mancate coperture della manovra finanziaria, il confronto fra sistema e anti-sistema è destinato a durare ancora a lungo. E inseguire il movimento di Grillo sul suo terreno preferito rischia di accrescere il suo consenso, anziché sottrargliene una fetta. Il che è doppiamente rischioso perché non si sta litigando intorno a un voto locale, bensì sull’ipotesi di approvare o rigettare un progetto di nuova Costituzione. La quale non può nascere dalla premessa che la politica e quindi il Parlamento, ossia i legislatori, servono a poco e costano troppo.
Tutti sanno che questo è l’argomento dei Cinquestelle, la chiave del loro successo. Per svuotarlo, è verosimile che occorra rivendicare invece la dignità delle istituzioni e dei rappresentanti del popolo. Renzi, incalzato e infastidito dall’offensiva anti- casta, ha controproposto di punire gli assenti, riducendo loro l’indennità (e i rimborsi) in proporzione al mancato lavoro parlamentare. È un’idea di buon senso con il torto però di arrivare in contro tempo, per cui sembra — e in effetti è — una mossa dell’ultim’ora imposta dall’iniziativa “grillina”.
In realtà la soluzione del rebus dipende dalla qualità dei parlamentari, quindi dalla capacità di selezionarli in base alle competenze e — perché no? — anche alla passione civile. Se è così, più che un mucchio di stipendi dimezzati, serve una legge elettorale in grado di restituire ai cittadini il diritto/ dovere di scegliersi i propri rappresentanti conoscendoli uno per uno e valutandoli di conseguenza. Ora che l’Italicum è in procinto di essere abbandonato — a voler credere alle parole dette e ripetute — , si presenta l’occasione di dare una risposta seria e non demagogica al populismo di Grillo.
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Virginia Raggi

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Il governo delle città
La sindaca fa il bilancio dei primi quattro mesi. “No alla logica dei 100 giorni, serve solo a dare una mano di bianco . Noi seminiamo”

“Non sono perfetta in tutto ma riuscirò a cambiare Roma”
MARIO CALABRESI
ROMA
SULLA SUA scrivania ci sono due cartelline, su una c’è scritto a mano “documenti per la sindaca”, sull’altra “documenti per il sindaco”.

La prima domanda viene spontanea: «Come la dobbiamo chiamare? ». 

Virginia Raggi risponde alzando le spalle:
 «Sindaco o sindaca è indifferente, visti i problemi di Roma non mi sembra così importante e la cosa francamente non mi appassiona ».

Alla guida di Roma da 4 mesi sostiene di non aver niente di cui rimproverarsi ed è convinta di aver imboccato la strada giusta: 

«Ho sempre rifiutato la logica dei 100 giorni perché questo ti spinge a dare solo una bella mano di bianco. Noi abbiamo arato un terreno e cominciato a seminare, le prime piantine si vedono già nascere».

Dai suoi risultati a Roma dipende molto del futuro politico di M5S anche nella prospettiva di un prossimo voto nazionale. Che obiettivo minimo si è data?

«Ne ho tre su cui mi sono concentrata: trasporti, rifiuti e trasparenza. La situazione dei trasporti a Roma è disastrosa e la prima urgenza è cominciare a garantire un servizio degno: mezzi così vecchi e usurati che non si possono riparare, per questo abbiamo preso 150 autobus nuovi in leasing. La Metro C, la più nuova, ha un problema di disallineamento dei binari che distrugge subito le ruote, qui bisogna fare lavori e manutenzione. I mini autobus elettrici per il centro acquistati e mai usati, per problemi alle batterie e al telaio, non sono utilizzabili e vanno sostituiti, ma bisogna anche trovare chi ha sbagliato, colpire chi è responsabile di questo sfascio».

L’altro tema caldo è quello dei rifiuti, qual è la sua ricetta?

«Ho trovato una società che sembrava portata volutamente al collasso, l’Ama era completamente paralizzata e dopo la chiusura di Malagrotta nessuno ha mai pensato a delle alternative. Oggi Ama si occupa solo della parte più onerosa, quella della raccolta dei rifiuti, e paga dei privati per lavorazione, smaltimento e rivendita. Vogliamo chiudere il ciclo dei rifiuti, far sì che Ama si occupi di tutta la filiera anche nelle parti che possono essere remunerative. E poi rimettere in funzione i due impianti di Salario e Rocca Cencia. Abbiamo bloccato tutto, ripulito le vasche e stiamo facendo manutenzione. A breve si ripartirà».

È fiduciosa di farcela in fretta?

«Noi ora ci troviamo a smuovere una montagna, ma lo faremo, non è un problema. Certo ci vuole un po’ di tempo. Poi devo dire che non ho mai visto tanti rifiuti pesanti, divani, frigoriferi abbandonati per strada. Non so se vengono fatti dei traslochi, se tanta gente sta rinnovando casa, ma è strano… ».

Ma sta dicendo che lo fanno apposta? Forse ci sono sempre stati ma lei non li notava?

«No, eh no. È un po’ strano, ci sono frigoriferi che invece di essere portati all’isola ecologica vengono buttati vicino ai cassonetti e non è mica un lavoro semplice portarli lì, non so neanche come facciano. Però il frigorifero è già tutto sfondato e graffitato. Mi sembra strano».

E chi pensa che li metta?

«E questo io non lo so. Le isole ecologiche ci sono e ora finalmente funzionano ma adesso abbiamo bisogno della collaborazione dei cittadini, si vedono ancora cassonetti vuoti e troppi rifiuti appoggiati fuori».

Ci sta dicendo che vede un disegno più grande dietro tutto questo?

«Noi vogliamo ricostruire un sistema che era stato abbandonato. Le faccio un esempio: quando eravamo all’opposizione sentivamo che si voleva svendere Atac a Rfi (Rete Ferroviaria Italiana) poi abbiamo cominciato a intuire un disegno per andare alla privatizzazione, ora al Senato c’è una mozione di Pd e Forza Italia per commissariare Atac e farla gestire a Rfi. C’è un disegno fatto sulla testa dei cittadini: il pubblico funziona male se viene messo in condizione di funzionare male. Quando si smette di far manutenzione agli autobus ad un certo punto il servizio si blocca, ma bisognerebbe chiedersi come mai nel tempo Ama e Atac, che dovevano essere due società modello, sono state abbandonate. Forse perché c’era la volontà di far vedere che il pubblico non era in grado di gestire per poi far subentrare i privati. E quello che stanno facendo in Parlamento per Atac ne è la prova provata».

Ma come pensa di riuscire a gestire la raccolta dei rifiuti a Roma nel futuro prossimo senza ricorrere agli inceneritori?

«Dobbiamo incidere molto sulla raccolta differenziata, che in alcuni quartieri non è mai partita. Oggi ci sono troppi rifiuti indifferenziati che finiscono in discarica o negli inceneritori. Il Parlamento ha una responsabilità gravissima, perché incentiva gli inceneritori e non sostiene per nulla le imprese che invece potrebbero fare ricerca per un diverso utilizzo del materiale indifferenziato».

Una sindaca cosa può fare?

«Vogliamo mettere incentivi fiscali per tassare meno quegli esercizi che offrono prodotti alla spina e producono meno imballaggi. Per i grandi eventi daremo la priorità a chi ha punti ristoro con stoviglie lavabili o riutilizzabili. E poi lavoreremo a un cambio culturale».

Di che tipo?

«A partire dai progetti nelle scuole, per far capire ai bambini come sia importante smaltire correttamente i rifiuti. Vogliamo avviare progetti per sostenere l’utilizzo delle biciclette. Realizzare nuove piste ciclabili. I bambini devono sapere che ci sarà una piccola corsia per andare a scuola a piedi o in bicicletta: dobbiamo fornire delle alternative agli ingorghi che paralizzano la città ogni mattina».

Sono piani necessariamente di lungo periodo, ma nel breve dovrete usare gli inceneritori delle altre città.

«Sì, nel frattempo è inevitabile mandare i rifiuti fuori. Ma lavoriamo a cambiare il sistema ».

Lei ha continuato a difendere Paola Muraro, assessora all’Ambiente, nonostante le inchieste che la coinvolgono, perché?

«Mah, innanzitutto mi sembra che già adesso una delle ipotetiche accuse, quella di abuso d’ufficio, stia cadendo. Se io dovessi dare retta ai giornali e rimuovere le persone a seconda di quello che scrivete, allora non so che fine avremmo fatto…».

È indagata per reati ambientali.

«Per quanto ne so dell’inchiesta sui presunti reati ambientali, perché nella fase dell’indagine sono sempre presunti, ma in realtà lo sono anche se si andasse a processo finché non si arrivasse a una condanna, io so solo che c’è questa presunta contestazione. Vorrei capire di cosa si tratta e poi all’esito di questa disclosure, se e quando ci sarà, prenderemo una decisione».

E quando sarebbe il momento di questa disclosure?

«Per esempio se ci fosse un avviso di garanzia. Ad oggi io non so nulla». Era rimasto il terzo obiettivo: la trasparenza «Trasparenza e stop agli sprechi. Penso a una trasparenza sostanziale, perché possiamo pubblicare tutti i documenti di Roma capitale nel sito, ma se non sono indicizzati allora non serve a nulla».

Lei aveva annunciato in campagna elettorale che la prima mossa da eletta sarebbe stata un audit sul mostruoso debito che grava sulla Capitale. Perché non è stato ancora fatto?

«Lo stiamo facendo con il nuovo assessore, il vecchio non l’aveva fatto».

Come mai Minenna non l’aveva fatto?

«Si stava concentrando su altri aspetti, per esempio ha trovato i 18 milioni per evitare la paralisi della metro A. Con Tronca erano stati stanziati 58 milioni per Atac ma ad un certo punto questi soldi sono spariti dal bilancio. Devono essere stati dirottati da altre parti ma non abbiamo ancora capito dove, li stiamo cercando».

La cosa migliore fatta fino adesso?

«Aver sbloccato le assunzioni delle precarie, abbiamo dato attuazione a una possibilità della legge Madia».

C’è qualcosa che invece farebbe diversamente?

«Prima di rispondere ci pensa a lungo e poi riparte decisa: «No, forse no. Perché anche se non sono stata perfetta in tutto, qualche sbavatura è stata necessaria per capire e migliorare. Vorrei avere più tempo per uscire e andare in giro per la città invece che stare riunita qui tutto il giorno».

A che ora arriva la mattina?

«Al mattino non vengo prestissimo, verso le 9,30-10. Prima devo portare mio figlio a scuola e poi c’è il traffico. Però resto fino a tardi, una notte ho dormito qui sul divanetto, ma ho chiesto che me ne trovino uno un po’ più lungo».

Sente costantemente Grillo?

«No, non costantemente, lo sento di tanto in tanto. Magari lui mi segnala qualcosa che viene fatto in qualche altra città. Ci aiuta dal punto di vista della comunicazione, rilancia i nostri contenuti. Noi non abbiamo un house organ e lui e Casaleggio ci aiutano molto».

Grillo il mese scorso ha parlato di un “tagliando” per la sua giunta a gennaio, si sente sotto osservazione?

«No, non mi sento sotto esame. Non sapevo di questa storia del tagliando, non l’avevo notata, a me lo fanno tutti i giorni i cittadini ».

Lei ha detto in campagna elettorale: «Sono onesta, preparata e competente». Poi ha omesso di mettere nel curriculum alcuni particolari che potevano gettare ombre sul suo cammino: il tirocinio nello studio Previti e i legami con l’avvocato Pieremilio Sammarco. Perché?

«Non ho nemmeno detto per quali ristoranti ho fatto la cuoca o famiglie in cui ho lavorato come babysitter. Io ho studiato con il professor Sammarco, poi gli ho chiesto un colloquio per lavorare con lui ma allora si appoggiava allo studio Previti e quindi sono finita lì. Non direi che è una colpa, è stato un evento».

Se tornasse indietro si comporterebbe nello stesso modo?

«Nessun avvocato inserisce mai nel curriculum lo studio nel quale ha fatto la pratica ».

La Lombardi, e non solo lei, le fa la guerra, la cosa la preoccupa?

«Diciamo che Roma ha talmente tanti aspetti da curare... i giornali spesso ingigantiscono situazioni che sono in realtà più piccole. Tutte queste lotte intestine non le sento ».

Lei era presidente della Holding Giuseppe Rojo, la settimana scorsa Repubblica ha rivelato come lo stesso Giuseppe Rojo abbia ottenuto un incarico importante e remunerativo dall’Ente Eur, società partecipata dal Comune. Non la imbarazza la cosa?

«La cosa non mi crea nessun problema nel momento in cui è un’attività che fa lui. Non posso essere accostata ad ogni cosa che fa. Io non faccio l’investigatore, io facevo l’avvocato e lui era l’amministratore e un cliente di studio, così l’ho conosciuto. Se mi si vuole imputare la colpa di non aver scandagliato nel suo passato, perché forse aveva rapporti con Eur… non ero tenuta a sapere».

Ma i rapporti con Eur arrivano dopo che lei diventa sindaco.

«Non ho neanche letto bene cosa faccia lui oggi in Eur».
Fa il mediatore per la vendita dell’albergo del centro congressi dove c’è la Nuvola.
«In bocca al lupo…».

Dopo il no alle Olimpiadi, si farà lo stadio della Roma?

«Noi abbiamo sempre dato la massima disponibilità, per lo stadio della Roma come per lo stadio della Lazio, ma nel rispetto delle leggi prima di tutto».

Vede un rischio di cementificazione come per le Olimpiadi?

«In quel caso non era un rischio ma una certezza, piuttosto il problema delle Olimpiadi era il debito mostruoso che avrebbe lasciato e non la cementificazione».

La sindaca di Torino Chiara Appendino ha firmato la proposta di legge per la legalizzazione della cannabis, lei no anche se in passato si era espressa a favore. Perché?

«Non lo so. Non è un tema che ritengo fondamentale per un sindaco. Io mi sto occupando di tutt’altro».

Porterebbe ancora suo figlio in Campidoglio il giorno dell’insediamento?

«Mio figlio ha partecipato da lontano a tutta la campagna, ma non l’ho mai utilizzato. Diceva “la mamma sta facendo una gara”, poi però mi chiedeva: “Mamma ma quanto dura questa gara?” Voleva venire perché sapeva che era un giorno importante ed è importante portarli sul posto di lavoro per far capire dove sono i genitori e perché arrivano tardi la sera. Sì, lo riporterei».

Per chi votava prima della nascita di M5S?

«Più o meno sempre a sinistra, mi hanno detto che il Pd è nato nel 2006 o 2007, posso dire che ho votato a sinistra e credo di aver votato una volta anche per i Verdi e una per Di Pietro».

La fotografia di lei sui tetti del Campidoglio ha trasmesso una immagine di solitudine.

«Ogni tanto bisogna essere soli per fare il punto, continuo a salire sul tetto e ci vado sempre perché è bellissimo. Comunque l’unico momento in cui ho pianto è quando mi sono affacciata per la prima volta al famoso balconcino che guarda i Fori, ho pianto perché ho realizzato che si cominciava davvero ».
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MIO FIGLIO
Riporterei mio figlio in consiglio comunale è importante fargli capire dove lavora la mamma
GRILLO
Non so nulla del tagliando a gennaio, non mi sento affatto sotto esame
SUL TETTO
Continuo a salire sul tetto del Campidoglio perché è bellissimo, a volte bisogna stare soli
CANNABIS
L’Appendino ha firmato per la legalizzazione?
Non è un tema decisivo, io mi occupo d’altro
FRIGORIFERI E DIVANI
È strano, non ho mai visto tanti rifiuti ingombranti, frigoriferi, divani, lasciati per strada
PRIMA I FATTI
I reati di Muraro sono ancora presunti.
Non do retta ai giornali
FOTO: © ANTONIO FACCILONGO/ LUZ

GLI APPALTI DEI FIGLI DI PAPÀ

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COMMENTI

ALBERTO STATERA
CLASSICO letterario del Novecento, da Kafka a Svevo, il rapporto tradizionalmente conflittuale padre- figlio (uccidere il padre) è per sempre archiviato dinanzi ai due figli di potenti che hanno messo a frutto le doti paterne. E finiti ieri uno agli arresti, l’altro indagato insieme a tanti altri cultori di opere pubbliche all’italiana, con l’accusa di associazione a delinquere e corruzione. Giandomenico Monorchio e Giuseppe Lunardi avevano le mani in pasta — sul bottino, sostengono i giudici — nei lavori pubblici più importanti e costosi, dall’alta velocità, alle autostrade, dal terzo valico Genova- Milano, al palazzo del cinema di Venezia, mai fatto ma costato 37 miliardi. Sulla Genova-Milano (6,2 miliardi) gli allibiti magistrati sostengono di aver trovato colla al posto del cemento. Sì, gallerie fatte di vinavil.
Vi dicono qualcosa i nomi dei due fratelli Karamazov? L’uno viene dai lombi di Andrea Monorchio, Ragioniere generale dello Stato (lui ama farsi chiamare emerito), dal 1989 al 2002, con dieci governi e undici ministri, da Franco Nicolazzi in giù. Non c’è finanziaria, Cipe o opera pubblica che non l’abbiano visto protagonista, fin da quando Andreotti lo nominò, soprattutto quando i suoi ministri erano del calibro di Remo Gaspari o di quell’altro gentiluomo di Giovanni Prandini. Ma pare che Guido Carli lo chiamasse alle nove di mattina per leggere insieme i giornali.

Lunardi invece era l’uomo che avrebbe fatto grande l’Italia berlusconiana, come garantì il 18 dicembre 2000 Berlusconi stesso, quando da Vespa annunciò che da ministro dei Lavori Pubblici, l’ingegnere già noto per una certa disinvoltura, avrebbe eguagliato più o meno opere come la Piramide di Cheope,la Grande Muraglia e i templi dei Maya. Una nuova Italia fatta con i gessetti presidenziali per la quale erano pronti 180 mila miliardi di lire. Dove sia finita quella montagna di denari, ammesso che esistesse, nessuno sa. Tutti sanno invece della montagna di scandali che si consumò al ministero dei Lavori pubblici e nei suoi pressi: gare truccate, soldi sprecati, opere fatte con lo sputo.
Detto El Talpa, perché la sua azienda familiare Rocksoil è specializzata in gallerie stradali, l’uomo di Stato (sic) disse che «con la mafia si convive». E ammise, con quella sua faccia da Big Jim senza cuore: «Sì, ho avuto dei favori, ma che male c’è?». Certo, che male c’è se un alto dirigente dello Stato si fa gli affari suoi ? Altro che favori. Con l’aiuto del cardinale di Napoli Crescenzio Sepe, Propaganda Fide gli cedette per un prezzo stracciato un palazzo di 42 vani in via dei Prefetti nel più caro cuore di Roma.
I due, Monorchio e Lunardi, sono l’epitome dell’alta burocrazia di cui tutti parlano (male) senza avere un’idea precisa del potere immenso che detengono e usano al fianco di una politica inetta e tecnicamente incapace, quando non corrotta. Le dinastie poi fanno affari sul potere dei padri.
Svevo voleva uccidere il padre, mentre i nostri giovani junior Monorchio e Lunardi li vogliono tenere in vita, li hanno messi a frutto, si sono accomodati nelle cucce paterne, con analogo genio etico, se le accuse che li hanno portati all’arresto saranno provate.
Lasciata la poltrona del ministero, Monorchio non è rimasto disoccupato, si è fatto collocare alle Infrastrutture Spa. Il figlio Giandomenico, classe 1970, è decollato con gli appalti più vari nei lavori pubblici. Ha fondato la Intel engineering, che ritroviamo in decine di opere pubbliche: dalla Firenze- Bologna, alla Metro C, dalla CataniaSiracusa alla Torino-Novara, fino al Centro sperimentale Anas di Cesano. Un portafoglio ragguardevole con qualche inciampo. Uno degli ultimi, la Palermo-Agrigento, dove la Intel engineering è direttore dei lavori e il viadotto Scorciavacche è venuto giù proprio nei giorni dell’inaugurazione. Colla al posto del cemento ? Come non sospettare?
Anche Giuseppe Lunardi ha seguito le orme del padre. Quando era ministro, Lunardi senior giurò che avrebbe venduto l’azienda di famiglia per evitare il conflitto d’interesse. Balle. Al vertice della società oggi c’è il figlio. I clienti crebbero: l’Anas, la Salini (di cui Matteo Renzi ha appena celebrato l’anniversario), Astaldi, Pizzarotti, Italferr e così via. Ha preso lavori all’estero, dopo aver lavorato alla Metropolitana milanese (667 mila euro) e aver progettato le gallerie tra Mergellina e Chiaia.
Ecco per gli italiani stanchi della burocrazia una storia istruttiva per aiutarli a capire da nove nasce il disastro di questo paese. La debolezza e l’incompetenza dei partiti ha creato questo ceto di potenti di cui non si può fare a meno, perché sono gli unici in grado di scrivere una legge (male o a loro personale favore) o di interpretare una norma che essi stessi hanno scritto o collaborato a scrivere.
Dopo le parentele varie, mogli, amanti, cugini di secondo grado, irrompono i figli a godere dell’eredità di potere. Un piccolo consiglio per le centinaia di migliaia di giovani che non trovano lavoro: nascete figli di un boiardo di Stato.
a. statera@ repubblica. it
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Terrore senza fine

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terremoto in centro italia
Sismi di magnitudo 5,4 e 5,9. Distruzione e feriti nei paesi vicini all’epicentro: “Pioveva e mancava la luce a causa del blackout, tutti erano in strada a urlare”. I primi cittadini: “I nostri borghi ormai sono finiti”


Due violente scosse crolli in Marche e Umbria “Qui è un’Apocalisse”
PAOLO G. BRERA CORRADO ZUNINO
DAI NOSTRI INVIATI
USSITA.
«Il mio paese è finito. È stato un terremoto fortissimo, apocalittico». Con la torcia in mano nelle tenebre e nella pioggia, il sindaco di Ussita, Marco Rinaldi, osserva quel che resta del suo paese. Terra di seconde case, di vacanze in montagna, di un turismo che oggi sembra distrutto come il borgo. È stata la seconda scossa (quella 5,9 della scala Richter) di una lunga notte da incubo, partita a una profondità di nove chilometri sotto i suoi piedi, a devastare il paese della Val Nerina. È arrivata, per fortuna, con le persone già in strada, scappate di casa alle 19.10 con la prima scossa da 5,4 Richter.
«Che botta, ci risiamo!». Cinque chilometri più in là, tra i boschi marchigiani al confine con l’Umbria, è sotto le case di pietra chiara di Castelsantangelo sul Nera, già ferite dal sisma del 24 agosto, che il terrore del terremoto torna a far tremare i muri e le gambe. Quando arriva la prima scossa, nelle sale del comune il sindaco Mauro Falcucci è chiuso insieme ai suoi tecnici a parlare delle casette, della ricostruzione. Le mappe, i progetti, il futuro. E invece no, il mostro è tornato. In pochi secondi sono tutti in piazza, il paese radunato a pregare e imprecare contro questo sisma che colpisce all’improvviso. E mentre ci si stringe e si piange, e mentre si pensa a quando finirà, ecco il diluvio ed ecco il buio. Va via la luce, va via la speranza. Per due ore non ci sarà corrente, con la terra che trema di continuo. E quando finalmente torna l’elettricità, torna anche il mostro: ecco la seconda scossa, «più terribile della prima », twittano e telefonano dal nuovo cratere. L’hanno sentita forte da far paura in mezzo centro Italia.
Alle 21.18 è un incubo: «È uno stillicidio, la terra non si ferma mai. Non sappiamo a chi chiedere aiuto, vorremmo solo un po’ di pace», dice ancora il sindaco Falcucci. Ma non è ora. Il cielo diluvia, le case già puntellate si sono lesionate ancora, e alcune facciate non ci sono più: ora sono cumuli di calcinacci in mezzo al corso principale. Ma stavolta l’epicentro è Ussita. Magnitudo 5,9, una bomba come quella che ha devastato Amatrice e Pescara del Tronto uccidendo 296 persone.
«È una situazione terribile — dice il sindaco di Ussita, Rinaldi — è crollato il muro di cinta e ci sono casali che non riusciamo a raggiugere. È difficile percorrere le strade: sono spaccate. Temiamo che ci siano stati crolli di materiale lapideo sulle frazioni sotto il costone del monte, dobbiamo assolutamente evacuare la frazione di Capovallanza. Già la scossa delle 19 ci aveva creato gravi problemi, quella delle 21 è stata terribile. Un’esplosione sotto i piedi, una cosa raccapricciante. Dopo minuti e minuti sentivamo ancora il crollo della facciata del monte Bove, una scena allucinante. Il nostro paese è finito, ce la vogliamo mettere tutta ma i danni sono immani. Stento a credere che ci sia una casa indenne. È stata anche una gran mazzata psicologica. Ci sono tre anziani bloccati in casa. Raccomandiamo la popolazione di restare fuori, di non uscire dalle auto». Alcuni anziani verranno salvati da case le cui facciate si erano sbriciolate.
È notte ormai, e continua a piovere incessantemente. «Sul fatto di non avere vittime o feriti sono abbastanza ottimista — continua Rinaldi — credo fossero tutti fuori... Avremo bisogno di alloggi per l’inverno. Qui sta arrivando il freddo. Di notte si vede poco, con la mia torcia. Ma domani penso si vedrà uno scenario pauroso. Tutti i 400 cittadini sono in qualche modo coinvolti, ma qui viviamo di turismo, abbiamo il Palaghiaccio, la piscina, gli impianti sciistici di Frontignano, duemila seconde case... ».
A Visso ci sono almeno due feriti. Nel bar centrale si è aperto uno squarcio di quattro metri. L’albergo più importante è stato colpito ancora: «Botta dopo botta, adesso sarà sicuramente inagibile — si sfoga il titolare — eravamo già in crisi dopo il 24 agosto, ora dovremo chiudere». Anche la chiesa è danneggiata, il parroco racconta di nuove crepe riparandosi alla meglio dalla pioggia scrosciante. Ci sono stati innumerevoli crolli di chiese e case private, e grossi smottamenti sulle strade. La Salaria, che percorre la valle del Tronto fino ad Amatrice, viene chiusa per precauzione: nella zona di Arquata ci sono macigni pericolanti e tutto il costone accanto a Pescara del Tronto è a rischio.
Ma questa è un’altra faglia, stavolta è la val Nerina a essere in ginocchio. La strada è spaccata in più punti. Al bivio di Borgo Cerreto i carabinieri bloccano la circolazione, sia in direzione di Visso che di Norcia: «Ci sono massi larghi come auto, in mezzo alla carreggiata».
Ci sono uomini e donne in lacrime, nel panico. I vigili del fuoco sono arrivati da Rieti, da dove sono dislocati da due mesi per l’emergenza sisma, e le fotoelettriche illuminano macerie e crepe. A Rieti è arrivato il capo della protezione civile Fabrizio Curcio per coordinare i primi interventi, la macchina dei soccorsi torna a dispiegarsi e ancora una volta l’area colpita è larga e l’intervento è complesso. Ci sono stati crolli a Camerino, dove si segnalano anche alcuni feriti lievi: il campanile della chiesa di Santa Maria in Via, già danneggiata dal sisma del 24 agosto, è precipitato su una palazzina. Una dinamica terribile che ricorda da vicino la tragedia di Accumoli. Anche il patrimonio artistico di Norcia ha subito danni, e un assessore ricorda: «Ci siamo salvati grazie ai lavori che abbiamo eseguito dopo il terremoto del 1997». Si sta verificando la solidità di gallerie e viadotti, mentre due treni locali sono stati fermati e la gente è stata fatta scendere. Ci si stringe la mano, ma le parole sono poche. «Eravamo pronti, da due mesi vivevamo in allarme, siamo scappati subito», dice una mamma con una bimba in braccio a Castelsantangelo. Sono ancora tutti lì sotto la pioggia.
A Visso la Croce Rossa installa il primo punto di ricovero, in piena notte si portano i piatti per la cena, si prepara l’area per le tende. Dejavu. Qualcuno crede di trovare segnali premonitori: «C’era un caldo strano, oggi. Un caldo anomalo», dice una signora a Ussita. Si cerca di rintracciare i parenti, i figli che erano fuori casa. Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente ha uno sbotto di rabbia: «L’abbiamo sentita fortissima anche qui e ora stiamo controllando casa per casa per capire cosa sia davvero successo. Ogni cinque anni l’Italia ha un terremoto devastante, non è più pensabile non mettere tutto il paese in sicurezza.
Altrove i terremoti di sei gradi non fanno né morti né danni: ce ne sono duecento l’anno in tutto il mondo, qui in Italia continuano a provocare disastri».
Ma il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, ricorda a tutti: «Le case si possono ricostruire, speriamo che almeno questa volta non dovremo piangere nuovi morti ». Perché anche nelle zone del terremoto del 24 agosto, da Arquata del Tronto ad Accumoli e persino ad Ascoli Piceno dove molti hanno trovato rifugio, cadono cornicioni e intonaci e torna la paura. Ad Amatrice hanno riaperto i campi per accogliere la gente terrorizzata che era tornata nelle case agibili ma non se la sente più di vivere sotto un tetto. Oggi anche le scuole del territorio saranno di nuovo chiuse.

Effetto domino

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Terremoto in centro italia
“Gli eventi di ieri e quelli del 24 agosto sono sicuramente collegati” spiegano gli esperti. “Ci aspettiamo un altro sciame, il doppio colpo non è una novità”

La nuova faglia attivata dal sisma di Amatrice “Appennino instabile”
ELENA DUSI
ROMA.
Sedicimila e ottocento scosse più tardi la terra si è spezzata di nuovo. Da quel 24 agosto che distrusse Amatrice e i paesi circostanti con un terremoto di magnitudo 6.0 sono passati due mesi e una lunga scia di tremori. Ieri sera, una trentina di chilometri più a nord, i sismografi sono tornati a scuotersi, toccando prima magnitudo 5.4 alle 19:10, poi magnitudo 5.9 alle 21:18. Gli eventi di ieri e quelli del 24 agosto sono sicuramente collegati, spiegano fin da subito gli esperti.
Lo stillicidio dello sciame di assestamento dopo Amatrice era stato lungo, ma fino a ieri aveva seguito “un comportamento da manuale”. Anche se le scosse stavano calando in numero e intensità, però, nessuno aveva mai escluso che si potesse verificare il cosiddetto “effetto domino”. La faglia sotterranea che si era attivata il 24 agosto poteva aver “caricato di energia” una faglia adiacente, mettendola in condizioni di rompersi da un momento all’altro.
È quel che è avvenuto ieri sera. I geologi non sono sicuri se a spezzarsi sia stata una nuova faglia o l’estremità settentrionale di quella vecchia. «Le due faglie sono in qualche modo collegate, ma hanno anche un elemento di separazione, altrimenti si sarebbero rotte insieme il 24 agosto» spiega Alessandro Amato, sismologo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e direttore del Centro nazionale terremoti. «E meno male che è andata così» aggiunge Stefano Salvi, sempre dell’Ingv. «Se si fossero spezzate contemporaneamente avrebbero generato un terremoto ancora più forte».

Come ad Amatrice, i due terremoti di ieri hanno dato la stura a uno stillicidio di scosse secondarie. «Sì, ora ci aspettiamo un nuovo sciame» conferma Amato. Solo nella prima parte della notte si sono contati una trentina di sismi. «Gli eventi di oggi — ha commentato a sismografi ancora caldi Massimo Cocco dell’Ingv — ha perturbato ulteriormente la crosta terrestre. Nelle prossime ore sono possibili altre scosse, che potrebbero sommarsi a quelle del proseguimento della perturbazione del 24 agosto». Il “doppio colpo” non è d’altronde una novità in sismologia. «È già successo in passato che terremoti di energia importante come quelli del 24 agosto abbiano generato altri eventi di forte magnitudo» spiega Warner Mazzocchi dell’Ingv. «È avvenuto ad esempio nel 1976 in Friuli, dove tre mesi dopo la prima scossa ce ne fu un’altra. E ancora nel 1997 nelle Marche. In Emilia Romagna il sisma del 20 maggio 2012 fu seguito da un’altra scossa di magnitudo simile, nove giorni più tardi». La stessa Us Geological Survey descrive l’Appennino Centrale come una sorta di labirinto, con faglie sismogenetiche — cioè instabili e dunque capaci di generare terremoti — che si susseguono ogni pochi chilometri. «Quante sono? Non le possiamo certo vedere. Ne veniamo a conoscenza nei dettagli solo dopo che si sono attivate, cioè all’indomani di un terremoto» spiega Concetta Nostro dell’Ingv.
Ad Amatrice, ad esempio, fra i 20 e i 30 chilometri di faglia si sono spezzati all’improvviso. Mille chilometri cubi di terra sono improvvisamente crollati, di mezzo metro in alcuni punti e di un metro in altri. Il suolo a livello dell’epicentro si è abbassato di 80 centime- tri, come hanno testimoniato i satelliti nei giorni successivi. Il rischio che un evento così imponente avesse attivato altre faglie vicine non era mai stato considerato remoto. L’Aquila nel 2009 (magnitudo 6.3), Colfiorito nel 1997 (6.0), Norcia nel 1979 (5.8), Gualdo Tadino nel 1998 (5.1) sono solo i principali anelli della catena dei terremoti recenti in queste regioni.
All’origine del “domino” che a cadenze abbastanza regolari provoca distruzione sulle montagne dell’Italia centrale c’è la rotazione in senso antiorario degli Appennini. Abruzzo, Umbria e Marche si spostano alla velocità di 1-3 millimetri all’anno verso nord-est. Lo stivale che si gira “stira” l’Appennino e comprime la Pianura Padana, che infatti è stata colpita nel 2012. «Milioni di anni fa — spiega Salvi — le nostre catene montuose si sono formate per effetto della pressione della placca africana contro quella europea. Oggi assistiamo a un rilassamento di questi sforzi. In alcuni punti le placche addirittura hanno iniziato ad allontanarsi. Le fratture ereditate dalla fase di compressione ora si trovano nella condizione opposta. Questo provoca una situazione molto ma molto frastagliata».
Aggiornando in continuazione la mappa delle faglie sismogenetiche e monitorando gli spostamenti della crosta terrestre con i gps, oggi i geologi sono in grado di sapere dove, e con quanta forza, un terremoto colpirà. Il dato che ancora manca alla loro equazione — e presumibilmente continuerà a farlo ancora per anni — è il momento esatto in cui la terra si spezzerà.
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FOTO: © SANDRO PEROZZI/ AP
FOTO: © SETTONCE ROBERTO/ LAPRESSE
FOTO: © ROBERTO SETTONC/ LAPRESSE
VISSO
Le foto di Visso, la città è isolata e coperta di polvere. Durante la seoconda scossa si sono verificati nuovi crolli negli edifici già lesionati dopo la scossa delle 19
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