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Un parroco “ribelle” per i ragazzi della Sanità

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VOLTINAPOLI
Don Antonio Loffredo.
Amico di Ermanno Rea che nel suo romanzo “Nostalgia” gli cuce addosso la figura di “Don Rega”, il sacerdote guida la basilica di Santa Maria e ha dato avvio alla Fondazione San Gennaro
CONCHITA SANNINO
«MI CONDANNARONO in due righe. “Non è portato per lo studio. Meglio il lavoro”. Conservo ancora quel foglio, mia madre ne pianse. Io no: ero demotivato, indisciplinato». Don Antonio Loffredo, anche ora, non resiste nei confini dell’antica sacrestia. Quante volte avrà rivisto nei suoi ragazzi il ribelle che era. «In più, avevo una maestra, posso dire? Bizzoca». Ride. Una vulcanica, ruvida giovialità che ormai è volto di Napoli, anche molto lontano da qui.
Quarantacinque anni dopo quella pagella, don Loffredo, laureatosi in Teologia con lode, è parroco-guida della Basilica di Santa Maria alla Sanità, artefice con altri - laici come Ernesto Albanese o religiosi come padre Alex Zanotelli d’una rivoluzione del riscatto, è motore della Fondazione San Gennaro con capitale di oltre un milione di euro, nominato Cavaliere della Repubblica, e accolto da Papa Francesco due volte. E, ora, nei panni letterari di don Luigi Rega è una delle figure chiave che attraversa il romanzo (postumo) di Ermanno Rea: “Nostalgia”, ritorno a un rione- mondo, storia di radici e speranze tra due efferati delitti. Non a caso Carlo, il figlio dello scrittore scomparso a settembre, porterà sabato prossimo, il 29, le ceneri di Rea per un saluto laico, nel chiostro. Dall’amico prete presso cui, da ateo ex comunista, aveva ritrovato autentica ispirazione, amicizie profonde, forse l’impossibile riconciliazionecon Napoli.

Don Loffredo, com’era questo legame tra lei e Rea?

«Confronto, condivisione, curiosità. Insomma, siamo diventati amici. Ermanno mi aspettava quassù (col dito indica il B&b che sovrasta i locali affrescati della chiesa, ndr). A sera, salivo e mi fermavo su questi suoi occhi incredibili: si faceva raccontare, ma andava anche in giro, ascoltava e interrogava secondo la sua cifra di reporter. Stavamo ore davanti a una pizza,io con le sigarette, lui con sguardo acuto, che era partecipe dei nostri progetti, delle vite che qui scommettono ogni giorno dedizione, entusiasmo».

“Don Rega”, quindi, è lei ma è anche l’incarnazione di quelli che raddrizzano, rammendano, spingono.

«Intanto Rega era l’antico nome dei Rea, come lui mi confidò. Mi piace pensare che Ermanno vi abbia proiettato un suo alter ego, oltre a quello del protagonista Felice. Ma è fuor di dubbio che dentro quel prete ci sia il cammino di tanti, l’impegno di padre Alex, la fatica di padre Giuseppe».

Lei arriva alla Sanità nel 2000, con la condanna a don Rassello, che fu prete anti-clan.

«Tempi durissimi: ero il cappellano a Poggioreale ma dovetti piantare i piedi perché recapitassero il Vangelo in cella, a Peppe. Non dimenticherò la sua gratitudine, dopo. Continuo a pensare che si azionò una clamorosa macchina del fango. Fu allora che don Bruno Forte mi chiamò a una sfida: “Don Rassello ha avuto grandi intuizioni, tu puoi raccoglierle”. Accanto alla chiesa, c’era anche una figura storica del Pci locale, ma per noi soprattutto uomo di grande carità, Rashid Kemali».

La vostra mobilitazione ha salvato alcune vite. Lei che ragazzo era?

«Ribelle, indisponente. Alle medie, dissero ai miei: “Niente studio. Se proprio volete, una scuola professionale”. Ma proprio l’incontro con un professore del Tecnico mi fulminò: aveva una passione civile e una cura per gli altri, era stato tentato di farsi prete».

Suo padre non voleva, era un imprenditore...

«Mio padre si fece da solo a 18 anni. In casa di mia madre erano così poveri e dignitosi che mi raccontavano sempre questa scena di puro teatro eduardiano. Lei riceve i primi gioiellini dal fidanzatino in ascesa, ma poiché suo padre fa l’antifascista (anche) per non lavorare, sua madre non sa come andare avanti e si impegna quei piccoli oggetti con la promessa che un parente che lavora al Banco glieli renda indietro il sabato: perché la figlia possa sfoggiarli con l’innamorato. Ma spesso il parente non mantiene la promessa. Allora mia madre, pronta, si infila il pigiama e si fa trovare a letto: la parte della malata per non sfigurare col futuro marito».

Lei ebbe vocazione travagliata, un lacerante fidanzamento...

Sorride. «Lo ha letto da Rea, vero? I grandi autori sono capaci anche di furti con sublime abilità».

Le capita mai, dal rione dove anche ieri hanno sparato, dove si muore da innocenti, di arrabbiarsi col suo Signore?

«La rabbia arriva, le fragilità ti fiaccano, ma le “depressioni” durano poco. Senza retorica, chi sta con Dio sta vicino alla sorgente: io ogni sera, so che posso e devo lasciare a lui tutto il mio carico. La preghiera è questo immergersi. Scherzando, dico che uno dei motivi per cui accetto il celibato è la bellezza del silenzio della sera».
Scena dell’altra mattina, davanti alla chiesa: ragazzi lanciano petardi ai militari, che li rimbrottano, ma le mamme scendono a difenderli.

Quanti miracoli educativi servono?

«Siamo in preda a venti di odio e qualunquismo. Tutti convinti che i politici sono tutti corrotti, che le divise sono violenza e i preti tutti pedofili. Se un docente valuta con severità un allievo, i genitori laureati o analfabeti reagiscono allo stesso modo: i primi con le carte bollate, gli altri con le mazzate».

Lei, padre, crede ancora nella politica, a parte quella della Sanità?

«Certo. È la forma più alta di carità, diceva Paolo VI. Noi, anche qui adesso, siamo la politica».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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