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Yemen

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Il conflitto si allarga: rappresaglia dopo i tiri dei ribelli sciiti sulle navi di Washington, accusata di complicità nei raid aerei sauditi

Per gli Usa il rischio di un’altra Siria Missili americani contro gli Houthi
ALBERTO STABILE
BEIRUT.
Per la prima volta dall’inizio della guerra nello Yemen tra l’Arabia Saudita e la tribù degli Houthi, una minoranza di religione sciita, gli Stati Uniti, che hanno avallato l’intervento dell’alleato saudita senza, tuttavia, ricoprire un ruolo primario, sono entrati a piè pari nel conflitto bombardando con missili Tomahawk alcune postazioni radar controllate dalla tribù ribelle. È stata questa la risposta militare autorizzata personalmente da Obama al lancio di tre ordigni da parte dei miliziani contro il cacciatorpediniere americano “Mason” e una nave anfibia che incrociavano in acque internazionali non lontano dalle coste yemenite. Un’accusa, questa, che gli Houthi hanno risolutamente negato.
Nell’annunciare l’atto di ritorsione compiuto dalla Marina americana, il Pentagono ha voluto sottolineare il carattere “limitato” e “autodifensivo” dell’attacco alle postazioni radar, teso soltanto, a giudizio del portavoce della Difesa, a proteggere la vita dei marinai americani e la libertà di navigazione della Marina Usa. Sta di fatto che la spirale di violenza, azione e reazione, innescata dalla campagna militare saudita contro gli Houthi, adesso coinvolge anche l’America.
È stato il raid aereo contro i civili che sabato scorso a Sana’a partecipavano al funerale di un capo tribù - il padre del ministro dell’Interno Houthi, Jalal al Roweishan a rappresentare l’antefatto di questa improvviso innalzamento della tensione nell’area. Una lunga fila di persone che andavano a presentare le condoglianze ai parenti del defunto nell’Alkubra, l’edificio comunitario riservato a matrimoni e funerali. Poi il ruggito di un caccia. Due potenti esplosioni a distanza di sette minuti l’una dall’altra hanno demolito e incendiato il centro: i morti oltre 140 quaranta, i feriti più di 600, appartenenti a tutto lo spettro politico, e soprattutto, pare, all’area dei favorevoli a una soluzione negoziata del conflitto.
Non è la prima volta che la popolazione yemenita, le sue istituzioni civili e le stese strutture sanitarie finiscono nel mirino della coalizione di nove paesi arabi organizzata e guidata dall’Arabia Saudita per muovere guerra agli Houthi, accusati di rappresentare una sorta di longa manus del regime iraniano e, dunque, un’ulteriore insidia approntata da Teheran per insidiare il primato saudita nella regione. Secondo le organizzazioni umanitarie delle Nazioni Unite, l’operazione “Tempesta risolutiva”, come gli strateghi di Riad hanno chiamato la guerra, ha comportato, da quando è iniziata, nel marzo del 2015, la distruzione di 90 strutture sanitarie, fra cui 30 ospedali, alcuni dei quali gestiti da Medici Senza Frontiere. Il che vuol dire che una popolazione di 200.000 persone è rimasta tagliata fuori da qualsiasi intervento medico o cura d’emergenza.
Stavolta, però, i missili lanciati contro la folla ai funerali di Sana’a potrebbero provocare una svolta nel conflitto, se non sul piano militare, almeno su quello morale. All’inizio, davanti alle prime notizie del massacro, i sauditi, come in altre occasioni, hanno provato a negare. Poi hanno espresso il loro rammarico, annunciando l’apertura di un’inchiesta. Ma per gli Houthi, in questo momento, non sembra esserci altra soluzione che la vendetta. Mercoledì, nel giorno dell’Ashura, la festa più sacra del calendario sciita, migliaia di Houthi hanno affollato piazza al Sittin, il cuore di Sana’a, per ascoltare le parole di Abdel Malek al Houthi, il capo del partito Ansarullah, il braccio politico della comunità promettere vendetta contro l’alleanza “saudita- americana”.
Una grande foto di Hassan Nasrallah, il leader degli Hezbollah libanesi, spiccava sul palco accanto alla foto di Abdel Malek Al Houthi. Ecco, una traccia di quella che i sauditi vedono come la principale minaccia, la mezzaluna nera, la coalizione dei movimenti sciiti appoggiati dall’Iran che, dall’Iraq al Libano, danno corpo all’espansionismo iraniano in Medio Oriente.
È vero che gli Stati Uniti non partecipano direttamente alla coalizione lanciata da Riad contro gli Houthi, composta da nove Paesi arabi sunniti, ma forniscono intelligence, rifornimenti in volo, sorveglianza sui confini. Inoltre Obama ha avallato l’operazione e garantisce al regno petrolifero un ombrello militare impenetrabile, con forniture di armamenti per decine di miliardi di dollari, destinato a placare i timori suscitati nei sauditi dall’accordo sul nucleare stretto da Washington con l’Iran.
Ma di fronte all’inutile carneficina saudita gli americani mostrano di aver esaurito la riserva di pazienza. «L’appoggio dato alla coalizione non è un assegno in bianco», dice il Dipartimento di Stato. A cui, dopo il massacro di Sana’a, s’è aggiunto il Consiglio per la Sicurezza Nazionale minacciando una «revisione» dell’appoggio (militare) dato all’Arabia Saudita con un possibile riposizionamento rispetto ai «principi, ai valori e agli interessi » degli Stati Uniti.
L’imbarazzo americano nasce dal rischio, di essere risucchiati in un conflitto che, fatte le debite proporzioni, somiglia molto, quanto a disprezzo della vita umana e uso spregiudicato della violenza contro i civili, alla guerra in Siria, ma a parti invertire. Se ad Aleppo gli americani (e i sauditi) sono schierati dalla parte dei ribelli e della popolazione che subisce i terribili effetti dei bombardamenti russi e siriani, a Sana’a, sono gli aerei sauditi, che, grazie alla cooperazione degli Stati Uniti, mietono vittime tra i civili. Il rischio è in sostanza di perdere ogni credibilità quando Washington accusa la Russia di farsi complice dei crimini contro l’umanità compiuti verso la popolazione di Aleppo Est.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

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