la corsa alla casa bianca
Lo scenario.
Il repubblicano è l’erede di una lunga tradizione di bianchi che promettono di agire per il bene comune. Ma i timori di chi non vuole che il Paese cambi si scontrano con le minoranze che diventano maggioranza
EVAN CORNOG
Nella politica americana, “populismo” è una parola insidiosa. Apparentemente denota un insieme di atteggiamenti e proposte politiche che sono ”popolari”, approvate dalla gente comune. Ed è senz’altro la definizione preferita da chi si proclama populista. Alla fine del XIX secolo, l’”era populista”, come a volte viene definita, era caratterizzata da proteste e azioni di resistenza, soprattutto contadine, contro il potere crescente del capitalismo e la concentrazione del potere finanziario a Wall Street. Tuttavia, in America esistono diverse manifestazioni di sentimenti ”populisti”, e in molti casi la difesa dell’identità culturale e la reazione ai cambiamenti della società sembrano prevalere sulle preoccupazioni legate alla struttura economica. Nelle elezioni presidenziali di quest’anno, Donald Trump è stato salutato dai suoi sostenitori come il leader di una rivolta populista contro le norme e le prassi di Washington.
L’America offre terreno fertile per i sentimenti populisti. Ai tempi delle colonie, molti accettavano l’idea di dovere fedeltà a un lontano re inglese. Ma quando Thomas Paine, nel gennaio del 1776, denunciò la monarchia britannica nel pamphlet Senso comune, trovò un pubblico entusiasta e pronto ad accogliere le sue idee. La visione della legittimità reale di Paine era piuttosto drastica: «Ha maggior valore un solo uomo onesto, per la società e agli occhi di Dio, di tutti i ruffiani coronati che sono mai esistiti».
Il valore dell’”uomo onesto” fu ampiamente dimostrato nel gennaio del 1815, quando un’armata americana composta principalmente da milizie di cittadini-soldati, sotto la guida del generale Andrew Jackson, sconfisse, nonostante l’inferiorità numerica, un contingente britannico di soldati regolari e ben addestrati nella battaglia di New Orleans. Quella vittoria aprì a Jackson le porte della Casa Bianca, dove prese d’assalto colossi del potere finanziario come la Second Bank of the United States. Ma poi, nel corso dell’800, i mercati dei capitali divennero più sofisticati, le grandi aziende crebbero e contadini e allevatori videro ridursi il loro potere.
L’apice del populismo americano fu la vasta sommossa contadina degli ultimi 25 anni del XIX secolo, fomentata dalle pesanti recessioni del 1873-1877 e del 1893-1898. Nel 1896 dalle praterie del Nebraska sbucò fuori il grande oratore populista William Jennings Bryan. Arrivato alla convention nazionale del Partito democratico del 1896 come promettente volto nuovo, l’”Oratore Ragazzino” pronunciò un attacco contro la politica monetaria dominante che gli assicurò la nomination. Le elezioni furono poi vinte dal candidato repubblicano, che poteva contare su finanziamenti molto più ingenti.
Negli anni 30 salirono alla ribalta altre voci del malcontento economico. Huey P. Long, dalla Louisiana, proclamò (rovesciando Thomas Paine) che «ogni uomo è un re» e si guadagnò un seguito considerevole, tanto che lo staff di Franklin Delano Roosevelt lo vedeva come un potenziale pericolo per le presidenziali del 1936. Il populismo di Long abbondava di manifestazioni di disprezzo per le convenzioni sociali, come quella volta, nel 1930, che ricevette un diplomatico tedesco in pigiama. Il suo programma ”Condividiamo la nostra ricchezza” proponeva di tassare pesantemente il patrimonio, e con i proventi garantire a ogni famiglia una casa, un’automobile e una radio. Matematicamente i conti non tornavano, ma questo non importava. Le potenzialità politiche di Long, grandi o piccole che fossero, svanirono quando fu assassinato dal figlio di un rivale politico locale in Louisiana, nel settembre del ‘35.
I movimenti populisti americani non si basavano unicamente sull’antipatia verso ricchi e banchieri: spesso i nemici del popolo percepiti erano stranieri. Dopo la Rivoluzione Francese serpeggiava la paura dei giacobini radicali e degli ”Illuminati di Baviera”. Negli anni ‘20 e ‘30 dell’800 molti americani vedevano le attività fraterne della massoneria come un complotto malevolo, una cricca di elitisti decisa a sovvertire la democrazia, e l’anti-massoneria per breve tempo fu una forza politica importante.
Questi timori alimentarono quello che il grande storico Richard Hofstadter ha definito «lo stile paranoico della politica americana », che toccò l’apice con l’anticomunismo complottista del senatore repubblicano Joseph McCarthy negli anni ‘50. McCarthy organizzò audizioni in Senato sull’infiltrazione comunista nell’amministrazione pubblica americana e si dimostrò abile a usare il nuovo mezzo televisivo per attizzare i timori di una congiura sovversiva di vasta portata.
Hofstadter riassumeva così la visione del mondo dei teorici del complotto di destra a inizio anni ‘60: «Cosmopoliti e intellettuali hanno eroso le virtù americane di una volta; cospiratori socialisti e comunisti hanno gradualmente minato alla base il capitalismo di una volta, fondato sulla concorrenza; la sicurezza e l’indipendenza nazionale di una volta sono state distrutte da congiure sediziose, che hanno come agenti principali non degli stranieri, gente di fuori, ma statisti di primo piano che occupano posti chiave nel sistema di potere americano ».
Queste righe, scritte oltre cinquant’anni fa, sono una descrizione impeccabile di fenomeni come le fantasiose teorie sul luogo di nascita di Barack Obama (si diceva che Obama non fosse nato sul suolo americano e quindi, secondo la legge, non avrebbe potuto diventare presidente).
Per lungo tempo il maggior promotore di questa teoria è stato Donald Trump: anzi, è proprio grazie a questa idea che ha fatto irruzione sulla scena politica americana. Ha cominciato a prendere le distanze da queste tesi screditate solo a metà settembre. Teorie altrettanto prive di fondamento hanno avuto per oggetto Hillary Clinton a proposito dell’attacco contro il consolato americano di Bengasi, in Libia, del suo uso di un server di posta elettronica privato quando era segretaria di Stato e così via.
Le ragioni della fortuna di teorie del genere sono varie. Una è che certe persone si sentono impotenti e cercano qualcuno a cui dare la colpa. Inoltre, anche i paranoici qualche nemico reale ce l’hanno: Joseph McCarthy era maniacale quando immaginava le proporzioni dell’influenza comunista in America, ma il fatto che i sovietici fossero riusciti a infiltrarsi nel progetto per la bomba atomica a Los Alamos durante la Seconda guerra mondiale dava credito alle sue truculente fantasie. E come sanno i conduttori dei talk show radiofonici di destra in tutto il Paese, le fantasie truculente fanno salire gli indici d’ascolto.
Nelle consuetudini politiche americane, i ”populisti” sono quasi sempre americani bianchi. E la white America si trova di fronte a un cambiamento storico: nel 2015, più della metà di tutti gli americani al di sotto dei 5 anni di età apparteneva a una “minoranza”, secondo le categorie statistiche utilizzate dall’Ufficio del censimento. Fra gli Stati dove le minoranze sono già maggioranza ci sono il Texas e la California. Nel 2020 saranno maggioranza a livello nazionale nella fascia d’età al di sotto dei 18 anni.
E a 18 anni potranno votare. Nel giro di una trentina d’anni, questa situazione si estenderà a tutto il Paese. È una prospettiva che sta mandando nel panico i Repubblicani, ma in direzioni diverse.
Alcuni, come Jeb Bush e Marco Rubio, cercano di rendere il Partito repubblicano più accogliente verso le minoranze, in particolare gli ispanici. Ma quest’anno il Grand Old Party ha scelto come candidato Donald Trump: la sua retorica incendiaria, diretta in particolare contro messicani e musulmani, ha messo in un angolo gli strateghi più inclusivi.
Finora quello che è quasi sempre mancato all’America è un populismo che cerchi di unire i lavoratori comuni al di là delle differenze etniche e razziali.
Con all’orizzonte un’America dove le minoranze saranno maggioranza, il populismo americano sembra, finalmente, destinato a cambiare. Che Trump vinca oppure perda, il suo stile di populismo da commerciante di paure probabilmente è l’ultimo sussulto del vecchio paradigma. Sarà interessante vedere cosa verrà al suo posto.
( Traduzione Fabio Galimberti)