RCULT
Il romanzo.
Dany Laferrière mescola gli argomenti più disparati muovendosi tra i ricordi privati della sua esistenza ad Haiti, Eraclito e la Bibbia
DARIA GALATERIA
Dany Laferrière scrive in frantumi. Divaga per una, due pagine; poi si ferma e passa, apparentemente, ad altro. Questa forma spezzata gli è servita, spiega, per aggirare la dittatura. Haitiano — unico nero all’Académie française, dopo il poeta-presidente senegalese Senghor — è nato sotto il regime dei Duvalier e la milizia dei Tonton-Macoutes. Suo padre, un eroe della resistenza al potere militare, e poi, a 26 anni, ministro, aveva il gusto innato della lotta; era una «turbolenza totale». Dany aveva 5 anni quando questo padre ardente è allontanato dal paese; a lui restano due foto — barbuto, alla macchia, coi compagni — e un’infanzia tutta di donne: la madre, le tante zie, la nonna Da nel suo eterno dondolo in veranda. L’infanzia haitiana torna sempre nei libri di Laferrière, a soleggiare la narrazione di una vita d’esilio — ma lui parla risolutamente di un’esistenza di viaggi. Dany ha 23 anni infatti quando nell’estate del 1976 il suo amico Gasner Raymond è ritrovato in spiaggia assassinato: anche lui nel mirino della milizia, Dany lascia precipitosamente Port-au-Prince; la sua destinazione è il Québec. Il Canada è la scoperta dell’intimità — a Port-au-Prince, «le case contengono come minimo 36 persone», e la presa su se stessi è quasi impossibile.
Tra mille mestieri precari, nell’inverno canadese Laferrière scopre la lettura «nella vasca da bagno»; e inizia a scrivere. È allora, col successo degli spezzoni roventi di Come fare l’amore con un negro senza affaticarsi, o di Le gout des jeunes filles — un perseguitato a Haiti si nasconde da piccole prostitute occasionali — che Laferrière si ritrova in tv, in Canada, a presentare il meteo. Un nero che annuncia la neve glaciale in Québec, con umorismo: inizia così la collaborazione con Radio Canada, e le cronache all’origine de L’Arte ormai perduta del dolce far niente, il libro del 2011 che ora Federica Di Lella e Francesca Scala traducono per 66thand2d.
L’andamento divagatorio (si tratta appunto di aggirare la dittatura e tutte le ideologie preconfezionate) conduce nella sua dolcezza ingannevole direttamente a sbattere nei muri delle atroci civiltà. Nell’Amore al sud, si dice che nel Terzo Mondo l’amore, per le ragazze, non dura oltre i dodici anni — per gli uomini, «può arrivare fino a novanta». Alla comparsa delle prime mestruazioni, le emozioni di un’adolescente diventano una questione di pubblico dominio — i genitori e i vicini non sempre d’accordo tra loro. Tra quelle gambe è racchiuso il destino di tutta la famiglia: la ragazzina potrebbe riuscire a tagliare la testa al mostro ciclico che è la fame. Il passo trascorre allora a raccontare la fame, per poi stilare la lista delle metafore che ancora, anche nel nostro mondo, la collegano all’amore («ti mangerei di baci»).
Tra colloquiali poesie, e discorsi sempre semplici e imprevedibili sui sensi o la lentezza, Eraclito o la Bibbia (Davide adocchia la moglie di un ufficiale, e lo manda a morire al fronte), movimentato è il racconto di New York. All’arrivo, «oltre a me in macchina c’erano altri due neri, lo dico perché il nero attira i poliziotti delle cittadine americane come il miele gli orsi».
Segue il racconto di realismo reaganiano di una disavventura estrema dei tre amici, puntati, ginocchio a terra, da un agente — «un nero, ricco o povero che sia, analfabeta o laureato, prima o poi si trova in una situazione del genere». E sempre divagando, Laferrière passa a descrivere la mescolanza delle classi a Manhattan tra mezzogiorno e le due del pomeriggio — a una certa ora, i bianchi poveri e gli operai neri si affrettano a tornare a casa nel Bronx o a Harlem; «non è l’apartheid, ma poco ci manca».
In realtà, Laferrière non ama le questioni identitarie. Quando in Francia o in Canada gli chiedono in che lingua scrive, si irrita. Ha l’impressione che gli rimproverino di non scrivere in creolo. È il dramma dei paesi colonizzati: o all’opposto si sottintende — peggio — che «la lingua letteraria non è quella del paese in cui sei nato». L’opinione di Laferrière è che è lo sguardo a fare la grammatica e non il contrario. E chiude con uno dei suoi affondi: «Io scrivo nella lingua di chi mi legge».
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Nelle sue pagine l’infanzia ha sempre la funzione di contrappunto alla narrazione di una vita d’esilio tra New York, la Francia, il Canada
DISEGNO DI AGOSTINO IACURCI
L’ARTE ORMAI PERDUTA...
di Dany Laferrière
66TH AND2ND, TRAD. DI F. DI LELLA E F.SCALA PAGG. 392, EURO 18