18/8/2016
CULTURA
La seconda tappa del viaggio alla ricerca delle tracce di Walter Felsenstein, il geniale regista della Komische Oper
ALBERTO ARBASINO
Nani magri, gobbe obese, nasi finti, sederi posticci rutilano affannosi e invadenti nella scena sublime del Ballo di Spallanzani fra divani rotondi e tendaggi a gualdrappa color celeste glacé: nappe sbieche e bobecie di traverso, tutta una gamba flana e una penna nel didietro, è il trionfo della parrucca guitta villanamente espressionistica. La Traviata afferrata e “portata avanti” dal Giro di Vite di Citizen Kane. Quest’apoteosi-superamento del viscontismo illumina aspramente come l’estetismo scenografico all’italiana sia ancora un fatto sostanzialmente naturalistico, di fondo, con sparse épaves psicologi-stiche,
anche se la superficie appare lambita da un’antologia di decadentismi orecchiati. Descrittivismo ottocentesco, sia nella voluta rinascimentale sia nella piega populista che riproduce la biforcazione fra Salammbô e Assommoir oltre cui non riescono a procedere i Goncourt della nostra regia. E muovono eternamente i loro mulini decorativi, girando intorno al palo della convinzione che Essenza del Teatro sia spendere tanti soldi per riprodurre sul palcoscenico precisi identici il Ricevimento degli Ambasciatori del Carpaccio oppure la tabaccheria all’angolo delle vie, con tutte le sue bottiglie autentiche.
Nugoli d’ombre opache traversano la scena durante i cambiamenti di luogo a lume spento, a sollevare nuove figure misteriose, presenze inquietanti, simulacri bellissimi, panneggi scuri minacciosamente antropomorfici, con una certa suggestione d’archi che calano e volte che vanno su, mentre dall’interno un Döppelganger dell’orchestra reale ne doppia i luccicori offenbachiani con la calma soave delle folate del Don Giovanni che si suppone rappresentato nell’immaginario teatro dietro la scena, oltre gli archi della taverna di Lutter.
Finalmente, l’Atto Veneziano, dove l’Ironia Tecnica si fa avanti come protagonista-intermediaria fra la violenza dell’eversione espressionistica e la solidità del Reale quotidiano. Pochi applausi appaiono più imprudenti di quello alla gondola che apre la Barcarola: un gondolotto (non certo per caso) tozzo, corto, brutto, rattrappito e basso di sedere introduce un pubblico veneziano già circospetto alla meno ponchiellesca fra tutte le Venezie possibili. Non la bifora, mai il merletto, né la minima citazione di Palazzo Ducale o di Cà d’Oro. Tutta a linee circolari e spezzate, invece; come se la Salute surrettiziamente sottratta ai suoi Guardi e Kokoschka venisse metamorfosata di prepotenza nel più guitto Sacré Coeur, il Longhena in un manager d’ottovolanti, e la Serenissima fosse in realtà la capitale del Secondo Impero. Tanto vero che l’unico brandello di Realismo (sospeso a un filo di nylon) appartiene con odiosa precisione al soffitto dell’Opéra di Parigi. Circondato da panneggi a sbuffi senza nulla di familiare con Lisio o Rubelli o Fortuny, ma evidentemente dello stesso panno - e dello stesso rosso, e verde, della bandiera italiana - sopra un indecoroso razzolare di Rigoletti fra le mine accoppiate del Musée Jacquemart-André e del Campidoglio di Washington.
Come Barbablu divertentissimo, top tuttora di Offenbach. Lo si vide a Bologna, in una remota tournée della Komische Oper berlinese. E forse lo si rappresenta poco anche a Berlino. Però, che bellissimo spettacolo di Walter Felsenstein: con un Roi Bobè che confusionario nei suoi saloni tutti bestie impagliate, un Cavalier Barbablu perentorio e pasticcione, e l’ex-lattaia Boulotte proveniente da una pastorelleria di lezio vomitevole, ma indistruttibile come l’ultima moglie di Monsieur Verdoux (l’indimenticabile Martha Raye, col suo nasone) fra le sgrinfie del poligamo. Nei meandri monumentali del castello, quando suona mezzanotte, da tutti gli orologi, il vizioso alchimista Popolani risveglia le varie mogli in letargo (la romanica, la gotica, la neogotica, la neoclassica, la barocca, la rococò, ciascuna con la su cappella “in stile”) per “fare i numeri”. E poi con le sue droghine le rimette a dormire.
Intorno al mito inquietante della bambola meccanica scambiata per damigella vivente, Felsenstein elabora una schifosa ragnatela di barometri neogotici e condensatori biedermeier dove “rangolano” (direbbero Adami & Simoni) le intenzioni congiunte di Hoffmann e di Offenbach. E i ripicchi fra quei loro sgangherati Volta e Galvani che sarebbero Spallanzani e Coppelius. Gaglioffi anticipatori d’una disputa immaginaria non già fra Arte e Realtà e Illusione, ma fra il realismo magico di Bontempelli e le frecciate di C.P. Snow contro l’umanista ignorante di termodinamiche.
Nonché leggendarie scene di vita provinciale post-rococo di Wi- lhelm Hauff, trasferite da una locanda nello Spessart al Junge Lord di Hans Henze, col suo baronetto inglese che turba le placide notti d’una ville d’eau weimariana frustando a sangue un nipote mai visto, fra urla atroci. Ma un giorno presenta questo nipote in società, e nel breve giro di un tea-party un adorabile dandy si trasforma in osceno scimmione. (E si capisce che Mario e il Mago non può tardare).
La caricatura personalizzata caso per caso - e naso per naso negli invitati al Ballo Spallanzani, esasperando corista per corista fino al grottesco più crudo degli sberleffi già contenuti nello spartito, conduce al paradossale risultato che paragonato alla massa informe dei nostri, questo coro della Berlino marxista è molto risolutamente una somma di personalità individuali. Ma il vero “contropiede” arriva alla fine: quando il pubblico che ha applaudito l’inappuntabile ghirlanda di inchini dei cantanti, ha la sorpresa di trovarsi davanti, per gli ultimi battimani, un vaghissimo ton-sur-ton di diversi blu slavati, sopra e sotto la carta-da-zucchero: dentro luci sapienti, ridotti a oggetti squisitamente morandiani, sono i macchinisti in gruppo (e in tuta) apparsi immobili coi loro martelli e i loro cacciaviti, a prendersi il loro meritatissimo applauso.
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La regia sublime incontra perfetti interpreti. Davvero eccezionale, Sylvia Geszty nelle quattro parti femminili. Soprattutto in quella difficilissima aria di Olympia che è uno dei luoghi più stregati dalla storia del melodramma, instabilmente sospesa fra i picchiettati della Regina della Notte e il gran valzer-coloratura di Adele nel Pipistrello. Imponendo all’interprete la degradazione della coloratura in mezzavoce, fin sul filo del singhiozzo, ma senza che se ne incrini la pura bellezza, parallelamente all’esaurimento della carica a orologeria, che va espresso con mimica precisissima.
La Geszty è splendida anche nella Melodia Interrotta di Antonia, devastata dal conflitto fra Amore e Carriera, e vittima delle controindicazioni fra Bel Canto e Mal Caduco, davanti alle intimidazioni di morte del Dottor Miracolo. Rudolf Asmus, impeccabile in tutt’e quattro i Ruoli Malvagi, tocca l’indimenticabile in una fusione addirittura paradigmatica di gesto rigoroso e canto esemplare e violenza deformante di maquillage, nella demoniaca Aria dei Flaconi, crepitanti come nacchere funerarie per sottolineare la crudele tempesta dei “dont il faudrait…” la grandine maligna dei “chaque matin…” a cui s’abbandonavano Hoffmann e i Racconti nel vecchio film, con Robert Helpmann in basette da Rouge et Noir che trasformava i goccioloni di cera rossa e gialla nell’”appâts vainqueurs” degli Scintillanti Diamanti… Nell’aura dell’operetta inevitabile si entra già prendendo l’aereo a Francoforte, fra gli impermeabili corti e le pellicce enormemente lunghe e strette. E le scarpe inverosimili. E come libri in vetrina il loro Galsworthy, perfino un loro Paolo Mantegazza. Appena a Berlino, si sa che si perde per poco il programma natalizio di Zarah Leander, finito il giorno prima allo Sport-Palast, però sta cominciando al Titania-Palast la rivista di Capodanno di Marika Rökk.
Già i suoi film (ne fa ancora tantissimi) possono far perdere chissà quali trebisonde. Adesso fa cose di rock’n’roll non di rado vestita da uomo, con la chitarra e il capello corto, o anche delle sambe “in rosa”, storie tutte d’aeroplani e aeroporti. Brasile e Portogallo come ambienti soliti; ma la situazione è sempre Lilia Silvi, Claudio Gora, 1938, coi colori della Città d’oro anche se la cosa pretende di essere un Doris Day girato ad Amburgo, con le Hiller Girls, le Resina Girls, e costumi di Folco.
Il mobilio è svedese, ma le poltrone sono comode e a fiori, la sua bella cretonne, il vaso della sua kentia in un angolo, insieme al ficus, che fa signorile. Le tappezzerie e i paralumi sono il trionfo del fino chintz “moderno” da pensione, e vien sempre dentro un buffo contrabbassista che si strofina allegramente le mani insieme a un altro buffo trombonista, che invece si sbrodola con i caffè.
Lei fa la parodia delle opere. Si pre-sentono l’ouverture del Guglielmo Tell, il Valzer del Faust, il Cancan di Offenbach, e infatti uno dopo l’altro arrivano tutti. Sono quei film dove in ogni scena entra qualcuno eccitato e buttando per aria il cappello a portare una notizia su uno spettacolo che si sta preparando. Lei, travestita da diva ungherese, arriva in treno, tutta un Balaton. Subito dopo, quadro rurale, dove dà da mangiare ai polli, fra i girasoli, cantando: tutta una roba di diademi di pizzo, e stivaletti rossi, di capanne col tetto di paglia.
Poi l’entrata di lei sul carrettino, fra le spighe: pura Wanda Osiris di “un bacio solo - fra il grano in fiore - desta un fremito appassionato in ogni cuore”.
”Un bacio solo - passione ardente - va da un cuore ad un altro cuore follemente”… Spesso, anzi continuamente, rozzezze provocate da malaccorti: polvere sui libri soffiata in faccia, acqua dentro gli strumenti musicali, e tutto un appoggiarsi a quegli estintori che spruzzano, tipo gavettino.
© Alberto Arbasino 2. Continua
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Il regista austriaco Walter Felsenstein durante le prove dell’opera “ La piccola volpe astuta” di Leóš Janácek nella storica rappresentazione del 1957 alla Komische Oper di Berlino
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