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I vichinghi d’Oltreoceano dettano la linea all’America

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Da Minneapolis
Stanno sullo stesso fiume, il Mississippi, ma tra Minneapolis e New Orleans, l’inizio e la fine del Big Muddy, la distanza è impressionante, come si affacciassero su due fiumi diversi in due continenti diversi. Una distanza che aumenta ogni anno, come accade tra Stoccolma e Napoli in Europa. Per dire: Mini-apple, la piccola Manhattan del Midwest, conta 200 reati ogni 100mila abitanti contro i 50 ogni mille della Big Easy, la pigrona del Sud. Ma il gap economico e culturale cresce anche rispetto a metropoli della stessa regione, come Chicago, Saint Louis o Indianapolis. Un modello vincente che fa razzia di medaglie d’oro nelle classifiche sulle migliori città del Paese, ma che racconta un successo più ampio, quello degli 11 milioni di americani di origine scandinava, discendenti di pionieri e immigrati arrivati da Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia a colonizzare le terre più ostili e disabitate degli Stati Uniti, quelle che però li facevano sentire a casa, le più fredde, come il Minnesota, il Nebraska, il Nord e il Sud Dakota dove le temperature raggiungono livelli artici.
Dopo 150 anni di silenziosa e appartata prosperità oggi questa Scandinavia d’America detta la linea al Paese e addirittura influenza la campagna per la Casa Bianca. Minneapolis è una melting-pot scandinava, la capitale dei vichinghi della prateria. The Atlantic l’ha giudicata la città che offre le maggiori opportunità alla classe media, con il reddito medio nazionale più alto tra i giovani fra i 18 e 24 anni, la destinazione più ambita per le grandi compagnie che cercano una forza lavoro qualificata. Per Forbes è la città ideale per le madri che lavorano: 35 per cento di donne nei consigli d’amministrazione contro una media Usa del 15 per cento; una Confindustria solo femminile che è la lobby più potente in town.
«Da almeno dieci anni qui non esiste un problema di parità. Se trova una femminista in città mi butto nel Mississippi», dice Cathy Polansky, responsabile Sviluppo del Comune. Naturalmente bici e carrozzine sciamano lungo i viali che costeggiano i tanti laghi, come accade solo lungo i fiordi. Gente che pedala al lavoro felice quanto i burocrati di Washington o Bruxelles il venerdì pomeriggio. «Con i fondi pubblici abbiamo rilanciato North Loop, il quartiere più degradato, abbiamo riconvertito in residenze per artisti i vecchi mulini, agevolato gli affitti agli studenti e ora North Loop è diventato praticamente il nuovo centro città», spiega Cathy. Impreziosite dalle architetture di Frank Gehry e Jean Nouvel le sponde del Mississippi, Minneapolis è il centro culturale più dinamico degli Usa: seconda solo a New York per numero pro capite di posti a sedere nei teatri mentre Newsweek ha appena definito la città di Francis Scott Fitzgerald la più colta d’America per numero di librerie e libri venduti e pubblicati. Imprinting scandinavo sulle tasse, con un servizio sanitario in controtendenza rispetto al resto del Paese, quattro su venti ospedali pubblici figurano tra i primi venti del ranking nazionale. Qui la crisi è finita nel 2012, e Minneapolis – così come l’intero Minnesota e gli altri stati vichinghi – sperimenta un fenomeno assolutamente nuovo nella cultura nomade americana: si sta radicando il neo-comunitarismo e l’amore per la piccola patria d’origine, si comincia a sentire il bisogno di tornare dove si è cresciuti, dove ci sono i genitori, dove si condividono aspetti fondamentali dell’esistenza, non necessariamente economici; un movimento che viene definito «localismo etico».
Viaggiando dal Minnesota al Nord Dakota, superata Fargo in direzione di Bismarck, si susseguono fattorie e bianche, spartane chiesette luterane. Sembrano i paesaggi di Johan Christian Dahl, il grande pittore naturalista norvegese. «Qui nella pianura abbiamo salvato i valori scandinavi», racconta Clay S. Jenkinson al Boneshaker caffè di Bismarck, dove lavora ai suoi saggi su Thomas Jefferson. Racconta come le società dei cugini d’Oltreoceano siano paradossalmente all’antitesi rispetto a loro discendenti dei primi homesteaders, i coloni delle Grandi Pianure. Là si ritiene la famiglia all’origine di tutti gli stereotipi, qui è il valore fondante della comunità. «Loro rappresentano il paradigma della cultura progressista e liberal, noi siamo conservatori, addirittura reazionari, antisocialisti; loro il riferimento della cultura urbana contemporanea, del politicamente corretto, noi difendiamo i valori della comunità rurale e della libertà di parola perché siamo scappati dalla Scandinavia per dire quel che pensiamo: in questo senso siamo forse fuori moda e anti-moderni, ma per questo il resto dell’America ci osserva con attenzione, siamo il vero modello scandinavo».
Secondo uno studio recente dell’Institute of Economic Affairs, rilanciato dall’Economist, gli scandinavo-americani sono parecchio più ricchi della media nazionale, il livello di povertà al 6.7 per cento contro il 14 per cento nazionale. Sono anche il doppio più ricchi dei loro ricchi cugini d’Oltremare. Hanno più fiducia uno verso l’altro e nei confronti delle istituzioni, rispettano le regole, sono i protestanti che più applicano l’etica protestante del lavoro, quelli che spalano più neve e fanno volontariato nel quartiere. Il Nord Dakota è davvero la Norvegia del Far West. Ora è addirittura una potenza petrolifera: la Bakken formation, nell’Ovest dello Stato, è il più grande giacimento del Paese. Grazie alla frantumazione idraulica e alla shale revolution, il Nord Dakota ha permesso agli Stati Uniti di diventare energeticamente indipendenti e addirittura Paese esportatore. Il crollo del prezzo al barile ha rallentato la produzione del 70 per cento in due anni e quindi gli incassi, ma questo Stato, unico al mondo assieme alla Norvegia, ha una politica petrolifera della distribuzione del reddito garantita da un fondo di risparmio pubblico. Tanto che è l’unico Stato americano in attivo, con un surplus di quasi due miliardi di dollari, che finiscono in strade, scuole, ospedali, nuovi piani abitativi.
«Non vogliamo passare per quelli che hanno vinto la lotteria», dice Jenkinson. «Investiamo per proteggere il paesaggio, per fare studiare gratis i nostri ragazzi, sostenere le piccole fattorie famigliari nella concorrenza alle grandi corporation». Tanto che a Bismarck è appena passato un referendum che chiedeva di proibire alle società quotate a Wall Street di acquistare farms a gestione famigliare «per proteggere il tessuto comunitario». «Noi siamo quelli – s’infervora Clay – che negli anni Trenta hanno creato un movimento agrario, la Nonpartisan League, per difendere il nostro territorio che veniva sfruttato dai grandi possidenti del Midwest e dagli speculatori della Borsa delle materie prime di Minneapolis». Fu allora, su questa spinta indipendentista, che il Nord Dakota uscì, unico Stato dell’Unione, dal circuito finanziario della Federal Reserve, la Banca Centrale americana, legata alle speculazioni dei banchieri di Wall Street, fondando una propria e autonoma Banca statale. Per legge lo Stato e tutti gli enti pubblici devono versare i fondi, compresi quelli incassati dalle estrazioni, nelle casse della Banca centrale del Nord Dakota, che li usa come un’agenzia di sviluppo e concedendo finanziamenti a tassi molto bassi.
«I subprime qui non hanno mai messo radici – afferma Clay -. I repubblicani, se vogliono cambiare rotta a questo Paese, devono ripartire da qui, da questi contadini scandinavi. Devono soprattutto imparare una parola fondamentale, lagom, che nelle nostre lingue vuol dire decenza, rispetto, pudore, evitare gli eccessi… Ecco perché, a noi repubblicani della prateria, Donald Trump ci fa arrossire di vergogna».
Marzio G. Mian


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