Vita notturna e amori, i mille inviti e la caccia al gettone. Le indagini e il non gradimento del ministro. Il tronetto anzi la poltrona di Sgarbi è pericolante, per l’ennesima volta. “Mi cacciano sempre”
di Michele Masneri
L’abbiamo visto invecchiare con noi, cambiare, crescere, anche ammorbidirsi, è la nostra Camilla Parker Bowles (anche per le chiome). Come una regina la sua immagine è ovunque, anche tra le decine, forse centinaia di comuni della penisola di cui è assessore alla Cultura in una specie di performance in cui lui è testimonial seriale e “protagonista del Novecento” come diceva quel tale delle televendite, seriale come in un multiplo di Andy Warhol, sempre contemporaneo anche se antico. E’ stato uno dei primi politici a denudarsi sulla copertina dell’Espresso, ha inventato per primo lo scontro fisico quando i talk-show ancora erano pacate presentazioni di libri. Però Vittorio Sgarbiè sempre a un passo dal trono, regina non diventa mai, molto meno astuto di Camilla si ferma sempre un momento prima, anzi a un certo punto regolarmente cade. Per incidente autoprocurato.
Così anche adesso con le indagini scatenate da denunce arrivate ai magistrati e riportate dal Fatto, per presunte malversazioni finanziarie, parallele a un non gradimento del suo ministro, Sangiuliano, il tronetto anzi la poltrona di Vittorio Sgarbi è pericolante, per l’ennesima volta. A Panorama nel 2018 richiesto di autodefinirsi in una frase rispose: “Mi cacciano sempre”. “Cacciato da sottosegretario del ministro Urbani, cacciato da assessore alla Cultura a Milano dal sindaco Letizia Moratti, da Alto commissario a piazza Armerina, da sindaco di Salemi”. Ora l'hanno cacciato pure da Miss Italia, a cui doveva presenziare (diecimila euro il cachet).
La scomparsa dei genitori e soprattutto della mamma come freno inibitore lo accomuna a Berlusconi. La sorella Elisabetta è musa e protettrice
Pure i guai di Sgarbi son sempre di due categorie, quella ascrivibile allo sbrocco puro e semplice, che ce lo rende simpatico, e quella diciamo dell’intrallazzo artistico-pecuniario, e qui non si vuol scendere nella complicata vicenda che lo vede sotto accusa – quadri comprati e non notificati, prestazioni a pagamento forse incompatibili col suo ruolo istituzionale, infine debiti col fisco – né si vuol dire che gli esperti d’arte non possano anche essere commercianti. Il più grande di tutti, Bernard Berenson, era entrambi, e anzi traeva orgoglio dalle perizie e attribuzioni ben pagate, ma Sgarbi sembra aver perfezionato il meccanismo estendendolo anche alla monetizzazione del reading e di tutto ciò che comporta l’essere Sgarbi cioè l’uomo di cultura televisivo e riconoscibile e ubiquo ai casi, polemista-recensore-presentatore-assessore alla Cultura h24 con lampeggiante e gettone di presenza. “Sono indignato dal comportamento di Sgarbi, va bene? Lo vedevo andare in giro a fare inaugurazioni, mostre e via dicendo. Ma mai avrei pensato che si facesse pagare per queste cose”, ha detto il “suo” ministro di oggi, Gennaro Sangiuliano.
L’odio per lo stare a tavola, il primato come uno degli italiani più ritratti della storia. Poi il fantasma, il doppio di Aldo Busi ritorna sempre
“Se vai avanti così ti toccherà vendere le litografie di Cascella e i mobili in stile” fu una maledizione busiana. Il fantasma, il doppio di Aldo Busi ritorna sempre (in comune i due hanno anche l’amore per il danaro e l’adorazione per la mamma). Un altro pasticcio corrente sgarbiano non penale ma che spiega il personaggio è l’organizzazione della prossima mostra dedicata a Robert Mapplethorpe, famoso per i nudi maschili che si sarebbe dovuta allestire nella sua città, Ferrara, a palazzo dei Diamanti. Sarebbero dovute arrivare a marzo le foto affiancate per la prima volta a dipinti e disegni di De Pisis. Ma alla Fondazione newyorchese che gestisce le immagini del fotografo il titolo non è piaciuto e si è tirata indietro. “Fiori e cazzi”, era il titolo sgarbiano. “A quel punto ho detto io no. Ho preso atto della decisione. Se mi devono mettere il velo su un artista che per tutta la vita ha fotografato uomini nudi, si tengano Mapplethorpe e lo rendano santo”. Tutto giusto. Ma a una cena, ricordiamo che Vittorio senza toccar cibo (odia mangiare, odia stare a tavola) chattava con qualcuno dell’organizzazione della mostra, ordinando: “Mettici più cazzi!”. E qui non può che tornare alla memoria il leggendario “Cazzi e canguri”, romanzo di Busi col sottotitolo “pochissimi i canguri”.
Sgarbi ha anche un altro primato poco noto, nella sua carriera ormai quasi quarantennale dopo gli inizi come supplente di latino a Tresigallo in provincia di Ferrara, poi i primi libri e il successo mondano e televisivo: è anche uno degli italiani più ritratti nella storia. Circolano centinaia, migliaia di sue raffigurazioni pittoriche, si dice sia secondo solo al Duce, perché navigando in quel mare di pittori ufficiali e della domenica e neoimpressionisti e neorealisti tra aste e concorsi e premio dell’assessore, tanti l’hanno dipinto, forse perché non in grado di averlo lì in carne ed ossa.
Un misto tra D’Annunzio e Bruno Cortona, una vita tra “Il piacere” e “Il sorpasso”. La sgarbeide è assoluta o non è
Come se la sua immagine non fosse abbastanza ubiqua tra tv, giornali, anche Instagram. Un suo collaboratore pubblica infatti le stories della vita prevalentemente notturna, la sgarbeide fuori orario tra auto col lampeggiante che sfrecciano tra musei aperti apposta, inaugurazioni, custodi tirati giù dal letto, riunioni mentre albeggia coi fidi consiglieri. Che sono quasi sempre gli stessi. Per esempio c’è sempre Peter Glidewell, creatura mezza umana e mezzo Solaro (nel senso del tessuto), già antiquario a Londra, esperto d’arte dandistico detto “Modesto”, perché di ogni manufatto o programma che gli venga sottoposto storce il britannico ciglio e sibila: “modesto”. I collaboratori, Sgarbi, li sottopone a vita frenetica, di giorno e appunto di notte, tanto più che questi, che sono spesso sia collaboratori che fan, dopo un po’ mollano. Anche Alain Elkann che era una specie di addetto stampa araldico nel 2001 ci litigò, poi la lite rientrò, e pare che all’esperienza ministerial-vitalistica col lanzichenecco Sgarbi Elkann abbia dedicato il romanzo “L’invidia”. Anche oggi sarebbe stato un collaboratore a mandare anonimamente le denunce, arso da sete di vendetta. Perché la sgarbeide è assoluta o non è, è una missione e una scelta di vita, non viene tollerata una mezza fedeltà. Soprattutto la notte. La notte è il suo regno. Qualche volta infatti spesso si addormenta, di giorno, a inaugurazioni e proiezioni, ma la notte, la notte si rianima come un Nosferatu delle Belle Arti.
A vegliare sulla vita e a scongiurare la morte di Sgarbi c’è l’eterea, solida Sabrina Colle, moglie-non moglie (gli Sgarbi, come i Berlusconi, non si sposano più) che attende, modera, comanda. Contiene. Nei saloni questi sì dannunziani dietro al teatro Argentina, tra dipinti e oscuri velaggi, la notte è il territorio sgarbesco che – altra cosa in comune con Berlusconi – è insonne, dunque eccolo lì, su un divanetto, in fondo in fondo, mentre la casa pullula di cortigiani, belle ragazze, ragazze così così, segretari coi fogli che cascano, e lui lì che gira su se stesso, detta, bacia, perizia, agguanta la vita (notturna). Magari in mutande. La visita a casa Sgarbi è una tappa inevitabile nel grand tour romano, quando ti installi nella capitale prima o poi qualcuno – di notte – ti dirà: andiamo a casa di Vittorio, come a dire, ti porto al premio Strega o alla villa Furibonda. E’ un passaggio importante, iniziatico. Anche se la vera casa di Sgarbi è la macchina, lui infatti in auto bivacca, l’auto (perennemente col lampeggiante acceso) sfreccia ad altissima velocità di badia in badia di museo in museo, di inaugurazione in inaugurazione, ricolma di carte, documenti, libri, mentre Vittorio seduto davanti a destra (mai dietro) compulsa, gli occhiali tirati su, le novità del momento anzi del secondo, sul cellulare a cui è perennemente attaccato.
Sgarbi insomma è un misto tra D’Annunzio e Bruno Cortona, la sua vita oscilla tra “Il piacere” e “il Sorpasso”; il suo gesto più filologicamente dannunziano fu nel 1998 quando cercò di rompere l’embargo internazionale alla Libia di Gheddafi, violando – col fido Glidewell e un manipolo di arditi – il blocco aereo e atterrando a Tripoli con due piccoli Piper decollati da Lampedusa. Ma per restare a terra, una volta lo si incontrò in un grand hotel della Versilia con una signora dall’aria spaesata che aveva tirato su chissà dove, un’ammiratrice, anche un po’ agée, a cui aveva fatto vivere il brivido, per qualche giorno, della vita sgarbesca, tra suite e inaugurazioni (e chissà poi dove l’avrà depositata). Perché la vera dimensione di Sgarbi è la provincia, la provincia delle pievi e dei conventi e delle cattedrali ma anche degli industriali e dei burrifici. Di questo territorio Sgarbi è l’ospite di sogno, l’intellettuale però televisivo, il televisivo però colto, che illumina con la sua aura banchetti ed eventi e perfino matrimoni e battesimi (dove raccontano si facesse pagare per l’augusta presenza, come un neomelodico della cultura). Come Berlusconi e D’Annunzio e Busi non è un fenomeno urbano e metropolitano, la sua presenza appartiene a un contado che si immagina leggendario. Al suo passaggio le signore sospirano, e lui non è insensibile. Ma come Berlusconi e a differenza del Vate, Sgarbi non necessita di polverine, lui produce eccitanti da sé, è autosufficiente come uno di quegli enormi impianti eolici disseminati nella infinita provincia italiana, quei mulini a vento che sono tra i suoi nemici preferiti.