Quantcast
Channel: Articoli interessanti
Viewing all articles
Browse latest Browse all 5027

𝗣𝗥𝗢𝗖𝗘𝗦𝗦𝗢 𝗔𝗟 𝗦𝗜𝗡𝗗𝗔𝗖𝗔𝗧𝗢

$
0
0



𝘐𝘯𝘥𝘢𝘨𝘪𝘯𝘦 𝘴𝘶 𝘶𝘯 𝘱𝘢𝘦𝘴𝘦 𝘤𝘰𝘭𝘱𝘪𝘵𝘰 𝘥𝘢𝘭𝘭’𝘪𝘯𝘧𝘭𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦, 𝘪𝘯 𝘤𝘶𝘪 𝘢𝘶𝘮𝘦𝘯𝘵𝘢 𝘭’𝘰𝘤𝘤𝘶𝘱𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘮𝘢 𝘥𝘪𝘮𝘪𝘯𝘶𝘪𝘴𝘤𝘦 𝘪𝘭 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘳𝘦 𝘥’𝘢𝘤𝘲𝘶𝘪𝘴𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘧𝘢𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘦. 𝘈𝘯𝘤𝘩𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘨𝘭𝘪 𝘦𝘳𝘳𝘰𝘳𝘪 𝘥𝘪 𝘶𝘯’𝘢𝘨𝘦𝘯𝘥𝘢 𝘴𝘪𝘯𝘥𝘢𝘤𝘢𝘭𝘦 𝘧𝘦𝘳𝘮𝘢 𝘯𝘦𝘭𝘭’𝘦𝘲𝘶𝘪𝘷𝘰𝘤𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘢 𝘧𝘢𝘳 𝘤𝘳𝘦𝘴𝘤𝘦𝘳𝘦 𝘪 𝘴𝘢𝘭𝘢𝘳𝘪 𝘴𝘪𝘢 𝘭𝘢 𝘳𝘦𝘥𝘪𝘴𝘵𝘳𝘪𝘣𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘱𝘰𝘭𝘪𝘵𝘪𝘤𝘢 𝘢𝘯𝘻𝘪𝘤𝘩𝘦́ 𝘭𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘥𝘶𝘵𝘵𝘪𝘷𝘪𝘵𝘢̀. 𝘐𝘭 𝘗𝘳𝘪𝘮𝘰 𝘮𝘢𝘨𝘨𝘪𝘰 𝘮𝘦𝘳𝘪𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘱𝘪𝘶̀
di 𝗟𝘂𝗰𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗖𝗮𝗽𝗼𝗻𝗲

E’un Primo maggio particolare: da una parte i sindacati in piazza per una “mobilitazione” contro la perdita del potere d’acquisto dei salari e le politiche insufficienti del governo, dall’altra Giorgia Meloni che ha scelto la Festa dei lavoratori per un “decreto lavoro” che taglia il cuneo fiscale ai redditi più bassi, quelli più colpiti dall’inflazione. Il governo, rimediando rapidamente al pasticcio della maggioranza sulla mancata approvazione del Def alla Camera, mette tutte le nuove risorse liberate dallo scostamento di bilancio sui redditi da lavoro; il sindacato protesta perché non basta. In mezzo c’è una situazione economica molto complicata, sebbene gli ultimi dati sulla crescita (+0,5 per cento nel primo trimestre, con una variazione acquisita per il 2023 di +0,8 per cento) mostrino una dinamicità per certi versi inaspettata: una crisi energetica che si è attenuata ma prosegue; un’inflazione che persiste e si sta spostando dall’offerta alla domanda, ovvero dalla componente energetica a quella di fondo; una politica monetaria di rialzo dei tassi d’interesse per riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento; un debito pubblico molto elevato, ben sopra al 140 per cento, che scenderà lentamente risentendo dell’incremento della spesa per interessi; il ritorno delle regole fiscali europee dopo la sospensione dovuta prima alla pandemia e poi alla crisi energetica. Tutto questo riduce al lumicino i margini di bilancio con cui il governo – qualsiasi governo – può intervenire. E questo però il sindacato, in particolare la Cgil e la Uil, non sembra prenderlo in considerazione. Le proposte del sindacato guidato da Maurizio Landini sono un lungo elenco della spesa: taglio del cuneo fiscale di 5 punti; recupero del fiscal drag attraverso un’indicizzazione delle detrazioni; aumento della spesa pubblica per la sanità, per l’istruzione e la non autosufficienza; rinnovo dei contratti del pubblico impiego; aumento della spesa pensionistica introducendo la Quota 41. Il conto totale ammonta a qualche decina di miliardi di euro che non hanno una copertura. Il governo dovrebbe reperirli in un quadro macroeconomico in cui – in accordo con le regole europee – deve perseguire un aggiustamento fiscale di circa 20 miliardi. Un confronto, anche duro, tra governo e sindacati su queste basi è impossibile, perché non parte da un principio di realtà. A rendere più complesso il quadro c’è la situazione ambivalente del lavoro in Italia. Da un lato, il mercato del lavoro non è mai stato così in salute. Secondo i dati Istat, a febbraio 2023 gli occupati sono oltre 23,3 milioni con un tasso di occupazione del 60,8 per cento, il più alto da quando ci sono le serie storiche, in aumento di 350 mila unità rispetto all’anno precedente (+1,5 per cento). Ma il dato significativo è che il miglioramento è dovuto integralmente ai contratti a tempo indeterminato: i dipendenti permanenti in un anno sono aumentati di 515 mila unità (+3,5 per cento), a fronte di una forte riduzione dei dipendenti a tempo determinato di 143 mila unità (-4,6 per cento), che tornano a scendere sotto i 3 milioni, e di un lieve calo degli autonomi (-20 mila unità) che restano attorno ai 5 milioni. Simmetricamente si registra una riduzione sia dei disoccupati che degli inattivi. Dall’altro lato, i lavoratori italiani sono quelli che di più hanno visto alleggerirsi la busta paga. Secondo l’ultimo rapporto sull’impatto dell’inflazione sui salari dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro), “in Italia l’impennata inflazionistica ha eroso i salari, producendo una riduzione dei salari reali di quasi 6 punti percentuali nel 2022 che è più che doppia rispetto alla media europea”. L’impatto dell’inflazione si somma a quello del Covid, visto che nel periodo 2020-21 si è registrata una “crescita più che modesta delle retribuzioni mensili di 0,1 punti percentuali (effetto pandemia), rispetto agli 1,7 punti della media dei paesi dell’Unione europea”. Un dato che sembra andare in direzione opposta è quello contenuto nel rapporto “Taxing wages” dell’Ocse, appena pubblicato, secondo cui in Italia nel triennio 2019-2022 (ovvero quello del Covid e della crisi energetica) la crescita media nominale dei salari (quindi senza considerare l’impatto dell’inflazione) è stata del 2,57 per cento.

Viewing all articles
Browse latest Browse all 5027

Trending Articles