UNA DATA COMPLICATA DA GESTIRE
DI MARIANNA RIZZINI
Roma. Il 25 Aprile è alle porte e le opposizioni, con una mozione congiunta, chiedono che Palazzo Madama onori la data “rispettando” la storia. Ma, in giorni di rielaborazione culturale a destra, tra una convention e un convegno, del 25 Aprile non si è parlato. Rimozione? Timore di dover dire cose che scontentano l’elettorato più ideologico? Con che cosa dovrebbe e potrebbe la destra al governo riempire la sua agenda del 25 Aprile, senza rinunciare alla propria identità ma senza attaccare la ricorrenza come in passato, quando da destra c’era chi parlava del 25 Aprile come di una festa “divisiva”, per non dire di peggio?
Per il politologo Alessandro Campi sono due i problemi che rendono la data complicata da gestire: “Da un lato, a sinistra, si dovrebbe evitare di spingere alle estreme conseguenze una certa ipocrisia che ha permesso di veicolare a volte una narrazione non corrispondente a verità. Sappiamo che la storia del 25 Aprile è controversa, sappiamo che a un certo punto una certa sinistra si è appropriata della ricorrenza in chiave antiberlusconiana, e penso alla data chiave del 25 aprile 1994 per la virata identitaria e politica per cui si pretende che il 25 Aprile sia la festa di tutti ma poi la si mantiene gelosamente come festa propria. Il centrodestra, d’altro canto, ora al governo, non può più rifugiarsi in una contrapposizione simbolico-ideologica. Giorgia Meloni, in particolare, dovrebbe partire proprio dalla retorica da lei adottata, quella della nazione come schema politico. E da un principio nazionale inglobante: nella nazione, nelle sua liturgie civili, è contenuto anche il 25 Aprile, e in questa chiave si potrebbe smontare il suddetto ‘vizio’ della sinistra che parla della ricorrenza come festa di tutti per poi tenerla per sé”. Ma la destra, dice Campi, “dovrebbe anche fare un’operazione di apertura politica seria e di continuità rispetto a una storia repubblicana che ha come punto di frattura e ripartenza l’antifascismo”.
Il politologo Giovanni Orsina consiglia al centrodestra governativo di riflettere sul termine stesso di antifascismo: “Antifascismo vuol dire tantissime cose: non così tante come ‘liberalismo’ o ‘socialismo’, ma comunque tante e molto differenti l’una dall’altra. Negli anni, e in particolare dai primi anni Sessanta, è diventata corrente un’interpretazione fortemente progressista del concetto che lo ha sovraccaricato e ‘tirato’ molto a sinistra. Ha pesato il fatto che il Pci fosse delegittimato dalla Guerra fredda, e utilizzasse allora l’antifascismo per rilegittimare se stesso e al contempo contro-delegittimare quelli che lo delegittimavano. L’antifascismo quindi, nel corso degli anni, è stato sì usato contro i veri fascisti, ma anche contro gli anticomunisti conservatori, cattolici o liberali, pure se, oltre che anticomunisti, costoro erano anche esplicitamente antifascisti. Per colmo di paradosso, è stato usato talvolta contro lo stesso Pci dai suoi avversari di sinistra. Si capisce allora perché da destra, ma anche dal centrodestra liberale (pensiamo al berlusconismo), l’antifascismo sia stato respinto: accettarlo significava mettersi alla mercé dei propri avversari, permettere loro di definire i confini del politicamente legittimo. Suicidarsi, insomma. Quel che la destra non ha mai cercato di fare, e potrebbe cercare di fare adesso, è ridefinire l’antifascismo, ‘tirarlo’ di nuovo al centro e, a quel punto, farlo proprio. Potrebbe definire strettamente l’antifascismo come accettazione dei valori costituzionali democratici e liberali e condannare quindi il fascismo in quanto antidemocratico e illiberale. Potrebbe centrare l’attenzione sul Parlamento, le elezioni, i diritti di libertà, riconoscendo l’antifascismo, in questo senso, come elemento fondante della Repubblica. Ma al contempo potrebbe respingere tutte le superfetazioni che sul concetto si sono accumulare dai primi anni Sessanta e l’intenso uso politico che se ne è fatto da sinistra, come corpo contundente, allo scopo di arrogarsi il diritto di decidere chi fosse legittimato su base antifascista e chi no. La destra in questo modo butterebbe, per così dire, la palla nel campo progressista: io accetto il 25 Aprile, ma tu accetta il principio che il 25 Aprile non è casa tua, non spetta a te decidere quali contenuti politici contenga né chi sia titolato a parteciparvi”.
Che cosa dovrebbe dire o fare Giorgia Meloni, il 25 aprile?
Lo scrittore e filosofo Marcello Veneziani partirebbe
“con una dichiarazione di principio: la libertà e la democrazia vanno difese da ogni tentazione autoritaria, oligarchica e totalitaria – passata, presente e futura; l’amor patrio comune dovrebbe prevalere su ogni antistorica contrapposizione di parte, pur nella legittimità di avere giudizi storici differenti. Ed è più che maturo, anzi tardivo, il tempo di restituire il fascismo e l’antifascismo alla storia, liberando la politica da usi e abusi impropri e anacronistici del passato remoto. Coltiviamo la memoria storica ma la nostra storia non comincia e non finisce con il 1945”.
La riflessione, dice lo storico ed editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia, dovrebbe ricordare “che la Liberazione ha segnato per l’Italia l’inizio di un periodo più prospero e più civile”. In quanto cittadini, dice Galli della Loggia,
“la Liberazione, intesa in questo senso, ci accomuna tutti. Chi ha combattuto non aveva sempre le stesse idee degli altri compagni partigiani, ma tutti avevano una forte idea di patria, come si evince dalle tante lettere dei condannati a morte durante la Resistenza che si concludono con le parole: ‘Muoio per la mia patria’. C’è poi c’è anche un altro aspetto di cui tenere conto: nel nostro Dna c’è la guerra civile, e fin dal Risorgimento. E la libertà allora dovrebbe avere la virtù non tanto di conciliare gli opposti, ma di riconciliare gli animi. Dopo il 1860 siamo stati tutti italiani, dopo il 1945 siamo tutti cittadini della Repubblica. Anche nel quadro tragico della guerra civile ci fu chi non si abbandonò alla vendetta”.
A questo proposito, Galli della Loggia cita la lettera di Pedro Ferreira, tenente comandante della settima divisione alpina Giustizia e Libertà, una lettera ai compagni del Partito d’azione. “Domani verrò fucilato”, scrive Ferreira: “Muoio contento di aver compiuto fino all’estremo sacrificio il mio dovere verso la patria e verso me stesso… non sento di nutrire alcun rancore, non mi sento animato da alcun senso di impotente vendetta”. E cita, il condannato, anche un “nemico” cui deve riconoscenza: “Il tenente Marcacci è un fascista, è vero, e come tale è nostro avversario, ma è un avversario leale onesto e d’onore. Mi ha sempre trattato con rispetto . L’ho chiamato a testimoniare e mi ha difeso fino al limite delle sue possibilità. Al tenente Marcacci dovranno essere riconosciuti questi meriti. Anche al tenente Barbetti. A loro va comunque tutta la mia riconoscenza, e voi dovete associarvi a questo sentimento che provo in punto di morte”. Due settimane di tempo, dunque. Si riempirà l’agenda?