DI VALERIO VALENTIN
Nella Lega sono sorpresi che non abbia ancora minacciato le dimissioni. “Di solito fa così”, dicono. Lo ha fatto, in effetti, da vicesegretario e da responsabile Esteri del partito; lo ha fatto da ministro dello Sviluppo economico. C’era da attendersi che anche ora, anzi soprattutto ora che ricopre il più rognoso degli incarichi di prestigio, Giancarlo Giorgetti ricorresse a quell’estremo ricatto. Sempre con toni felpati, sempre quasi a ribadire di non sentirsi indispensabile, ché lui non smania di stare in prima fila, anzi. “Se non mi si ritiene all’altezza, faccio un passo indietro”. Dunque le quotazioni di Via Bellerio dicevano: “Entro sei mesi”. Tanto più che, fosse stato per lui, neppure ci sarebbe andato a Via XX Settembre. E non era solo una riluttanza di facciata, quella sua solita coazione a scansare gli impacci – un po’ come Don Abbondio provava sempre a tenere la sua mula lontana dalle tracce più sdrucciolevoli del sentiero – con cui ha sempre cercato, di volta in volta, di eludere le richieste di chi voleva investirlo di responsabilità. Stavolta era stata un’ambizione sincera, ma contraria, a indurlo a resistere quasi oltre il tempo massimo, a brigare fino all’ultimo, anche dopo avere offerto rassicurazioni a Giorgia Meloni, per tenersi alla larga dal ministero dell’Economia. E infatti Matteo Salvini la richiesta se l’è vista rinnovare, ancora, alla vigilia dell’elezione di Lorenzo Fontana, quando i giochi ormai erano chiusi. “Me lo merito, no?”. Perché era quello il posto che Giorgetti aveva sognato per sé: la presidenza della Camera, il cantuccio dorato di chi immagina ulteriori apoteosi, negli anni a venire, o semplicemente la tranquillità di un lustro di onori e di omaggi, ma al riparo dagli affanni: una legislatura da gran signore, e poi un futuro da riserva della Repubblica.
E invece no. Salvini è stato irremovibile, “ché la Meloni non vuole Fontana al governo”, per cui la ricompensa all’amico di sempre doveva per forza essere lo scranno più alto di Montecitorio, “sennò poi sai che cinema”. E Meloni non aveva grandi alternative: era partita con Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Bce a cui aveva promesso l’impossibile, pur di strappargli un sì per il ministero dell’Economia, anche solo come transito obbligato verso il vertice di Banca d’Italia, e s’era ritrovata impantanata in una ricerca senza esito. “Devi andarci tu, Giancarlo, sono sicura che farai benissimo”, aveva allora rilanciato. E lui, pur senza entusiasmi, s’era lasciato convincere a suon di lusinghe. Del resto c’è un motivo se nel Carroccio c’è chi, come Giulio Centemero, lo chiama affettuosamente “Gatto Giuliano”: come quello di “Kiss me Licia”, tutto sornione e diffidente, ma in verità assai sensibile alle carezze. “Gli piace farsi desiderare: davanti ai complimenti, fa le fusa”. E insomma, apparentemente più scettico che onorato, ha accettato. Bofonchiando, ovvio, come al solito.
Forse anche per questo, mentre lui giurava al Quirinale, nel Carroccio c’era chi rivedeva addirittura al ribasso le previsioni: “Non chiude la legge di Bilancio: molla prima”. E non che siano mancati i momenti di tensione. Quando Tommaso Foti, il capogruppo di FdI alla Camera, ha inveito contro il presunto lassismo dei tecnici della Ragioneria generale dello Stato, imputando alla loro assenza da Montecitorio i motivi dei ritardi nella definizione della Finanziaria, ha anche alzato il telefono per chiamare direttamente Giorgia Meloni. “Non posso tollerare che dalla maggioranza mettano in dubbio la lealtà dei miei uffici”. Al che la presidente del Consiglio ha richiamato all’ordine i suoi, ha imposto la linea del rigore: “Giancarlo non si tocca”. E tutto s’è risolto.
Dimostrazione di un legame, quello tra la capa del governo e il responsabile dell’Economia, che resta solido a dispetto delle molte maldicenze che lo contornano. Non da oggi, ma neppure da sempre. Perché Giorgetti, che il Fronte della gioventù lombardo lo ha bazzicato da ragazzo, prima della folgorazione bossiana, nei confronti di Meloni ha a lungo nutrito un certo risentimento, che pure era segno di stima. Nel senso che ha sempre visto nella cocciutaggine barricadiera della leader della destra il richiamo della foresta a cui Salvini cedeva, lo spauracchio che impediva al suo segretario di imboccare risolutamente la via della moderazione. “E Matteo non s’accorge che, a tempo debito, sarà lei a fregarlo e a puntare verso il centro”, si sfogò con uno dei confidenti a fine 2021, alla vigilia della gran baruffa quirinalizia.
di Valerio Valentini
Previsione che, va detto, aveva una certa fondatezza. E infatti quando la svolta è avvenuta, quando Meloni ha gettato a mare l’armamentario da oltranzista della protesta, lasciando che a baloccarsi nel girone degli appestati d’Europa insieme a Le Pen e ai fascistoidi di Alternative für Deutschland restasse Salvini mentre lei si guadagnava la strada per Palazzo Chigi dispensando ossequi e riverenze a Mario Draghi, ecco che l’astio s’è trasformato in ammirazione. “Mi chiama quattro o cinque volte al giorno”, diceva Giorgetti all’indomani delle elezioni del 25 settembre, mentre si imbastivano le trattative per il governo da farsi. Per lo più, i colloqui gravitavano intorno al solito tema: come evitare che Salvini facesse sciocchezze. Di lì un’intesa crescente, una sostanziale comunione d’intenti e di vedute che dura tuttora.
Anche adesso che, a complicare il rapporto tra il ministro e la sua premier c’è di mezzo Alessandro Rivera. Per Meloni, è ormai una questione di dignità, un puntiglio fattosi quasi ossessione: “Se resta, ci perdo la faccia”. Dunque no, pare proprio che non resterà, che l’avvicendamento al vertice del Tesoro è questione di settimane. E questo, nonostante Giorgetti ci tenga a far sapere che, dipendesse da lui, potesse davvero decidere lui in autonomia, nessuno toccherebbe Rivera. Il quale, da uomo di mondo avvezzo alle furbizie che la politica impone, sin dall’inizio s’era fatto poche illusioni: che Giorgetti se lo sarebbe tenuto buono per redigere una legge di Bilancio proibitiva, ne avrebbe senz’altro sfruttato la rete di contatti in Europa, forse avrebbe anche abbozzato una manovra di difesa, ma al dunque non si sarebbe certo impiccato per lui. Un attimo prima di dover capitolare, quando tenere davvero il punto significherebbe andare allo scontro, Giorgetti allarga sempre le braccia. Come a dire: e vabbè, è andata così.
A meno che non sia vera l’altra teoria, accreditata da chi più stima il ministro. E cioè che il siluramento di Rivera il leghista lo avesse messo in conto fin dall’inizio, e abbia anzi lasciato trapelare la sua affezione verso il direttore generale del Tesoro proprio sapendo che altri, e cioè i patrioti di FdI, ne avrebbero allora, con maggior foga, invocato lo scalpo. E lui allora si sarebbe speso – come in effetti sta avvenendo – per fare in modo che il tutto avvenisse in modo ordinato, col galateo istituzionale che si conviene (“Non si urla mai contro la gente che vuoi rimuovere”): per cui Rivera potrebbe ottenere un posto alla Bei, la Banca europea degli investimenti; e al Tesoro verrà nominato qualcuno di cui Giorgetti si fida. Forse non quello Stefano Scalera che di Rivera è peraltro amico di vecchia data; forse toccherà a Cristiano Cannarsa, ingegnere meccanico con un’esperienza consolidata dentro l’amministrazione pubblica, gran conoscitore del sottobosco capitolino delle partecipate e attuale amministratore delegato di Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione, dopo essere già stato, e con profitto, a capo di Sogei. “E così Giancarlo – racconta un suo collaboratore – ha ottenuto di rimuovere Rivera lasciando che fosse la Meloni a intestarsi l’operazione, così da uscirne immacolato”.
Troppo ardita, come ricostruzione? Può darsi. Di certo c’è che con Giorgetti è sempre così: non si sa mai se il suo agire sia motivato da calcoli raffinatissimi, la freddezza serafica anche davanti alla vertigine dei precipizi più imprevisti, oppure da una paraculissima indolenza. Massimo Garavaglia, che è suo allievo devoto, dice spesso che “Giancarlo mi ha insegnato che la politica è difficile proprio perché è semplice”, e cioè che gli eventi vanno assecondati, non forzati. Carlo Calenda, scherzando chissà fino a che punto, dopo averlo sondato su un possibile accordo per un “polo draghiano”, si arrese alla sua accidia: “Secondo me vuole restare in un partito di brocchi così che possa sempre emergere come il più intelligente”. Lui per lo più se la ride, sapendo che comunque questa sua enigmaticità è già un successo, ché contribuisce evidentemente ad alimentare il suo piccolo grande mito personale.
E’ il giorgettismo, insomma, uno stato dell’animo, un modo di essere e di intendere la politica, che qui sul Foglio, tempo addietro, provammo anche a definire con una certa approssimazione: è quella pratica di apparire estremamente acuto nel difendere scelte scriteriate, la prudenza nei modi esibita a tutela della bizzarria delle azioni compiute, l’essere immune a se stesso, il confutarsi nell’istante stesso in cui si riafferma la propria coerenza. Forse sta qui, in questa estrema versione della furbizia italica, l’ineffabile capacità di Giorgetti di ergersi al di sopra delle sue mancanze.
Mancanze spesso anche fisiche. Perché, per uno che considera la politica “per il 10 per cento strategia, e per il 90 per cento metterci una toppa”, ci sta che quando le contingenze prendono il sopravvento, il ritirarsi in disparte sia una tentazione irresistibile. Non a caso uno dei suoi refrain, una frase che ormai suona un poco frusta alle orecchie dei leghisti che troppe volte gliel’hanno sentita pronunciare, è questa: “Me ne torno a Cazzago”. O anche: “Se non sono gradito, ho sempre Cazzago”. Cincinnato padano. Il riferimento è al suo paese d’origine, Cazzago Brabbia, buen retiro spesso evocato appunto come asilo politico e come piccolo universo a sé stante, nido e scenografia privilegiata del romanzo di formazione politica del Giancarlo, che del suo paese è stato a dieci anni sindaco prima del gran debutto romano. Ed è lì che ha imparato, da suo padre e dalla vita, quell’arte dell’attesa e della pazienza come dottrina fondante del suo lasciar correre, del suo apparente lassismo. “Ho la pazienza del pescatore”, ribatte sempre lui a chi gli rimprovera la scarsa propensione alla pugna, ricordando il mestiere del papà Natale. E manco pesca di fiume, che pure ha un che di brio: pesca di lago, roba da svenarsi di noia, nel suo lago di Varese, a due passi da casa sua, di recente tornato balneabile per volere di Attilio Fontana. Con grande scorno proprio di Giorgetti, che ovviamente ha fatto buon viso a cattivo gioco plaudendo all’“ottimo risultato della giunta regionale lombarda”, lui che la mancanza di turisti chiassosi non la disdegnava affatto, ché i pedalò e gli spruzzi e il baccano delle famigliole in gita spaventano i persici e le tinche (che già tocca contenderli ai cormorani della palude), e poi addio risotto al coregone, che è tra i suoi piatti preferiti.
Non era lì, però, a Cazzago, che bisognò andarlo a cercare a Ferragosto del 2019. Erano i giorni della crisi del Papeete, la tentata scalata al cielo di Salvini che finalmente s’era deciso, anche se con fatale ritardo, a rompere col grillismo e provare la via delle elezioni anticipate. Giorgetti quel sentiero glielo aveva indicato per mesi, dopo il trionfo delle europee. Solo che appena le cose si misero male, con la resistenza esasperata di Giuseppe Conte, gli abboccamenti sempre più frequenti tra Pd e M5s, e Matteo Renzi che faceva già le capriole, Giorgetti scomparve. In dissenso rispetto ai modi e ai tempi di un’operazione politica che lui aveva sì auspicato, ma non in quella forma, pare, e non così tardi. Sta di fatto che mentre il paese viveva la crisi più politica più sgangherata della storia repubblicana, il Giancarlo passeggiava per i sentieri della Valchiavenna, tra Campodolcino e Madesimo, in luoghi che tanto gli sono cari. Col cellulare quasi sempre spento, quasi sempre irraggiungibile.
Che l’arte della fuga fosse praticata con metodica precisione, d’altronde, se ne sarebbe accorto anni dopo anche Draghi. Che spesso a Giorgetti guardava come chi cerca un puntello di ragionevolezza in una selva di esagitati, confidava insomma che fosse lui, il ministro dello Sviluppo, uno dei pochissimi a cui il presidente del Consiglio desse del tu all’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi, a sedare le intemperanze di Salvini. Non a caso i due, Mario e Giancarlo, si sentirono assiduamente in quei primi giorni di ottobre del 2021, quando i collaboratori del premier erano decisi a dare impulso alla delega fiscale. “Teniamo”, gli garantì Giorgetti.