La sofferenza dell’individuo sovrastato dalla massa. Il libro appena uscito di Marcello Flores e Giovanni Gozzini fa una scelta di campo per raccontare il ventennio e i segni che ha lasciato: valorizzare il rapporto fra storia e le scienze sociali
ALFONSO BERARDINELLI 05 NOV 2022
Torno da un interessantissimo convegno organizzato dalla rivista Una città, che si è tenuto a Forlì dal 27 al 30 ottobre, dedicato a “Fascismi e internazionalismo democratico”. Molti i relatori (una trentina) e il dibattito non è mancato. Proprio nel corso del pomeriggio in cui ci si interrogava “se si può parlare di fascismo oggi”, mentre qualche ora prima l’interrogativo era “che cos’è il fascismo?”, mi sono chiesto se sia ancora il caso di usare il termine fascismo al di fuori di quello che è stato storicamente in Italia. La mia era la scoperta dell’ombrello, perché è noto da tempo, grazie al libro di Ernst Nolte sul tema, che le teorizzazioni sul fascismo sono di due tipi: ci sono quelle “singolarizzanti” e quelle “generalizzanti”, entrambe a loro modo giuste e utili. Quando si “singolarizza” il fenomeno fascista lo si fa per correttezza storico-empirica, che mira a ricostruire con precisione i fatti e gli atti del fascismo in particolare italiano (il fascismo è stato inventato da noi, anche se ha fatto scuola). Quando invece si “generalizza”, l’utilità è l’efficacia politico-diagnostica del termine, perché non si vuole lasciarsi sfuggire nessuno dei sintomi sociologici, psicologici, ideologici che annunciano un pericolo fascista anche in regimi che formalmente fascisti non sono.
Per quanto riguarda l’Italia, la sua storia e il suo fascismo-fascismo, bisogna leggere il libro appena uscito di Marcello Flores e Giovanni Gozzini Perché il fascismo è nato in Italia (Laterza, 272 pp., 20 euro). I due storici dichiarano subito che la loro scelta è di valorizzare il rapporto fra storia e scienze sociali: economia, politologia, sociologia, psicologia. Come il mestiere di geografo, anche quello di storico richiede una pluralità e mescolanza di competenze. Più che essere scienza, la storia è racconto che organizza idee, dati e documenti. Per rispondere all’interrogativo che dà il titolo al loro libro, Flores e Gozzini dicono nella premessa che hanno sentito la necessità di usare la psicologia (lo facevano anche Sallustio, Tacito e Plutarco): tanto la psicologia individuale del leader carismatico teorizzato da Max Weber, quanto la psicologia delle masse che ne sono magnetizzate e irrazionalmente gli ubbidiscono (ne hanno parlato Le Bon e Ortega y Gasset).
Quando si cercano i semi, i fondamenti psicosociali prepolitici del fascismo, cioè elementi di fascismo “molecolare” presenti nella società, e in cui si tratta più di mentalità e di struttura caratteriale che di vera e propria ideologia, non si può che ricorrere alle famose ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, il narcisismo e il sadomasochismo di massa. Nel saggio sulla mentalità fascista scritto da Adorno in collaborazione con Horkheimer si legge: “Secondo Freud, il problema della psicologia di massa è strettamente legato al nuovo tipo di afflizione psicologica caratteristica di un’epoca che per ragioni economico-sociali, testimonia il declino dell’individuo e la sua conseguente debolezza. Se non si interessava ai mutamenti sociali, Freud però ricercava entro i confini di quella monade che è l’individuo le tracce della profonda crisi dell’individuo stesso e della sua volontà di cedere senza interrogativi alle prepotenti sollecitazioni e pressioni esterne”.
Oggi prevale un esasperato, folkloristico, carnevalesco individualismo di massa. Si vuole essere individui ma al riparo di una massa. Il problema “antifascista” del futuro prossimo è la formazione di veri individui capaci di sottrarsi senza sofferenza, in felice libertà, alla pressione dei comportamenti sociali dominanti: che siano dovuti a moda, pubblicità, inerzia, ignoranza, propaganda o paura.