Quantcast
Channel: Articoli interessanti
Viewing all articles
Browse latest Browse all 4952

Padre mio che stai con me

$
0
0

Il nuovo romanzo di Marco Missiroli entra nel regno misterioso del rapporto tra padre e figlio quando la forza scompare. Il territorio del diavolo, le carte da briscola e una parola importante: “Amaracmànd”

Lui butta la sigaretta a metà. Alla fine mi sa che vogliamo solo le due o tre cose per cui veniamo al mondo. 

– Che filosofo. 

– Che patàca.

 

Marco Missiroli, “Avere tutto” (Einaudi) 

Se sfornella presto vuol dire che gli gira bene. Un figlio sa quali sono i movimenti del padre, un uomo conosce soprattutto il corpo dell’uomo che lo ha portato in spalla, amato e sgridato, uomo capace anche di sturare un lavandino, potare le rose, mettere un piccione in padella: la felicità era guardarlo. Tra padre e figlio molte cose passano attraverso il corpo prima che dentro le parole: l’ammirazione per certe mosse delle mani e poche frasi strette, anche perché sarà virile parlarsi troppo? In provincia, poi, a Rimini, dove l’esibizione dei corpi è feroce ma se ci vivi tutto l’anno vedi anche gli altri lati del mondo: l’esaltazione ma pure la caduta, l’inabissarsi dentro l’inverno e dentro i bar, la fine della fortuna e però l’orto con i pomodori a offrire rifugio ai sogni infranti. 

Nel suo nuovo romanzo Marco Missiroli, scrittore appena quarantenne nato a Rimini, fa molte cose, passi in avanti di maturità letteraria, costruzione di strade nuove e un passo dentro il mistero brusco che unisce un padre e un figlio nell’età adulta, quando uno dei due si sta indebolendo, perde le forze: è ancora cocciuto, anzi ancora di più, ma non è più potente. Non è più roccia, ma è ancora uomo. La casa è sempre la stessa, la cucina è la stessa, le carte da briscola stanno sempre sopra le noci, dentro il cesto di paglia, i soldi sull’ultimo ripiano della cucina dentro il macinino da caffè. Ci sono così tanti segni concreti del tempo che passa in questo libro, della sproporzione tra la velocità della vita di chi è andato via e di chi è rimasto da spezzare il cuore. 

Gli oggetti che abbiamo visto ogni giorno da bambini sono ancora lì, al loro posto, ed è rassicurante e straziante insieme. Sarà straziante per i nostri figli un giorno, forse, ma questa è la storia di un mondo più antico: la piccola borghesia di provincia, il quartiere dell’Ina Casa che dagli anni Cinquanta offre grandi speranze ai suoi abitanti, e ognuno poi con le sue speranze fa quello che può. Il padre di Sandro, la voce narrante di Avere tutto, voleva fare il geometra, ma un giorno mentre scaricava una cassetta di pesche in campagna a quindici anni con suo padre aveva incontrato l’ingegnere che gli aveva detto: ma no, adesso in Italia sono tutti geometri, tu devi fare il perito elettronico. Bisogna diventare perito elettronico, adesso, cioè allora, non per cambiare il mondo ma per avere fortuna. Bisogna fare questo, bisogna fare quello, bisogna ascoltare chi ne sa di più. Quel ragazzino aveva già comperato le righe e le squadre e la carta millimetrata. Gli piace misurare, gli piacciono i cantieri, gli piacerà sempre usare le mani e usare il corpo, finché il corpo non lo tradirà. La sua fortuna passa da lì, la sua sfortuna passa sempre da lì. Ma l’ingegnere dice quella frase, lui ha solo quindici anni, suo padre resta zitto, si china a sistemare nelle cassette le pesche già sistemate e la vita cambia in un momento. Via la carta millimetrata, via i cantieri, avanti con un altro destino. “Tu, Muccio, scegli l’università che ti piace e non fare come il babbo nel frutteto a San Zaccaria”, diceva allora la madre a Sandro. Tu, Sandro, hai la libertà, hai noi genitori che ci fidiamo di te, hai questa casa con il mutuo all’Ina Casa: puoi avere tutto. La madre è l’amore, la madre è la pazienza, la madre è la disperazione di scoprire e sopportare che suo figlio ha una smania che lo divora. 

Ma che cosa significa avere tutto, mi chiedevo pagina dopo pagina, per un uomo che invecchia, che a cinquant’anni ha un infarto, che cosa significa avere tutto per un figlio che un giorno dice a suo padre, in una specie di resa dei conti ma dolce, notturna: “Non è che siamo mai felici noi”. Leggere questo libro significa entrare in un posto misterioso che cerca di buttarti fuori, di respingerti perché non devi scoprire i segreti del territorio del diavolo, ma non chiude mai la porta, lascia uno spiraglio, vuole che tu rimanga lì. Attraverso il corpo del padre, il suo cucinare il sugo al pomodoro, salire e scendere le scale di casa come una libellula, stare nell’orto con in testa il cappello da pescatore, nascondere le fitte alla schiena fino a quando è impossibile camminare, uscire di casa a mezzanotte con il vestito buono sulla Renault 5 scassata e tirata sempre a lucido. Attraverso il corpo, gli oggetti e questa lingua romagnola aspra, che sta sempre in realtà dicendo: fatti i cazzi tuoi. 

Fatti i cazzi tuoi perché io sto male ma tu adesso sei tornato qui e io sono ancora tuo padre, quindi sono io che mi occupo di te, che ti preparo il letto, che faccio la spesa, che cucino il piccione e ti chiedo se hai bisogno di soldi. Altri soldi. Ma non parliamo di quei soldi. Parliamo di tutti quegli altri soldi: quelli che non vinceremo mai. Che cosa faresti con un milione di euro in più e cinquant’anni in meno, babbo? Mettiti a tavola, preparo io. Guido io, faccio io, ci penso io. Sono tuo padre.

 

Missiroli ci fa entrare nell’amore trattenuto e nelle case dell’infanzia nel momento in cui l’infanzia torna solo sotto forma di ricordo. Il posto da cui volevamo scappare, il posto in cui vorremmo rifugiarci per smettere di annaspare. 

Sandro e suo padre giocano a chiedersi che cosa farebbero della fortuna, se ne avessero ancora, se non l’avessero entrambi già sfidata ed esaurita. La fortuna che si ritira sempre con un ghigno appena annusa la paura. L’accanimento di inseguirla ancora. Hanno trovato un modo per parlarsi, padre e figlio, parlando d’altro, ognuno con il proprio sogno in mano ma nascosto dietro la schiena. 

I dialoghi sono mugugni, timidezze, goffaggini maschili, commozione da nascondere, parole strette che non c’è bisogno di spiegare. I lettori forse si aspettano una scazzottata, che è il modo in cui i maschi risolvono di solito i casini. La scazzottata non arriva. C’è invece qualcosa che cresce, un nodo stretto che si allenta, non si scioglie ma si allenta. Padre e figlio sono uno davanti all’altro, uno dei due ha le spalle più curve di prima, ma sempre il torace da nuotatore, i fianchi da ragazza, le mani nella terra dell’orto e i pensieri verso il cielo. Adesso è il momento, per il figlio, di aiutare il padre a camminare. 

“Laggiù il corno di Gabicce è limpido e noi insistiamo a camminare con l’andatura romagnola, mezzi svelti e mezzi pigri, la testa per aria e le ginocchia forti. Poi inchioda. Mi cerca con una mano e si piega in avanti, mi tiene e si fa tenere. – Sandro. – E’ la schiena? – Andiamo a casa. – Te sei stanco”. 

E quando speri, leggendo, che il dolore sia sufficiente, che il passaggio del testimone sia avvenuto (figlio quarantenne torna a casa per fuggire i fallimenti di Milano, del mondo, e trova un padre invecchiato dalla solitudine che sta per compiere settantadue anni ed è sempre convinto che le pietanze si cuociano meglio se accendi il gas con i fiammiferi e non con l’accendino), ecco che il dolore avanza e cresce. Impenna. L’unica certezza è che non è un dolore inutile. L’unica salvezza è che questo padre ha avuto accanto suo figlio. 

“Butta giù le pasticche per il cuore e fa uno scatto verso il mazzo da briscola nel cestino di paglia. – Giochiamo”. 

Nando a cinquant’anni ha avuto l’infarto e ha smesso di lavorare, ma non di giocare. Non di ballare. Non di amare sua moglie e di esserne geloso e di avere sempre voglia di tornare a casa a raccontarle che cosa è successo fuori casa. Non di tremare segretamente di orgoglio e speranza per il figlio bravo, pubblicitario, con le idee geniali, le trovate, e con quel segreto pauroso. “Abbiamo solo te”, il figlio unico su cui si riversano tutti i sogni spezzati. 

Marco Missiroli costruisce la geologia di un padre mentre lo guarda camminare, zappare, guidare, ballare, tagliare l’erba con la falce a petto nudo, e poi un giorno mettersi a letto e non poter fare altro che chiedere aiuto. Ma un padre chiede aiuto a suo figlio sempre in quel modo romagnolo, mezzo svelto e mezzo pigro, che significa ancora: fatti i cazzi tuoi e resta con me. Fatti i cazzi tuoi e fai il bravo. Non mi far penare più. 

La geologia del padre prevede il decadimento e l’avvicinamento, l’attimo prima che i ruoli si capovolgano e il padre diventi figlio, ecco che lì su quella striscia di spiaggia riminese fuori stagione (ma su qualunque strada, casa, piazza, auto, pezzetto di terra in cui avverrà la resa dei conti tra padre e figlio) ci sono due uomini uno accanto all’altro che si scambiano il passato, quello che non si può più aggiustare, e che guardano il futuro da un’altezza non dissimile. Ciascuno ha il suo sogno e il suo tormento, ma in questo momento possono perfino coincidere, sono così vicini. Devono entrambi ricominciare. Uno ha sbagliato in grande, l’altro ci è andato vicino, ma la sete di conquista appartiene a entrambi, quelle due o tre cose per cui veniamo al mondo hanno divorato entrambi. Fa commuovere il fuoco all’anima di un uomo che aveva messo i suoi sogni nel bar America e che ballava per vincere insieme alla moglie, scarpa contro tacco, sguardo alto, scivolo inclinato e pavimento di linoleum, paillettes. Marco Missiroli costruisce scene che non ci si aspetta e di cui non ci si può liberare. 

Ho aspettato settimane prima di scrivere di questo libro, il tempo è importante anche per chi legge: bisogna capire che cosa resta dopo che si è entrati in un altro mondo, dopo che l’ultima pagina è andata. Questo padre malinconico che si muove per casa agile e silenzioso e che da quando è rimasto solo mangia emmental con i cracker e certo non va al ristorante, questo padre che dice al figlio: Amaracmànd, mi raccomando. Dentro Amaracamànd ci sono così tante cose: la fiducia, la sfiducia, la consapevolezza che il figlio sbaglierà ancora, che non è finita qui, l’accettazione della libertà dell’altro e quindi del rischio di bruciare tutto, la comprensione di quel rischio, la comprensione perfino di quel vizio. Amaracmànd, sei mio figlio.

 

Questo padre resta, come creazione letteraria e come certezza nel tempo: il padre da cui tornare, finché puoi, il padre che non avrai più.

DI ANNALENA BENINI

Viewing all articles
Browse latest Browse all 4952

Trending Articles