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Eni, il caso è chiuso. Sconfitta la Procura della fu Mani Pulite

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diGianni Barbacetto
22 LUGLIO 2022

Di sicuro c’è solo che 1 miliardo e 300 milioni di dollari sono stati pagati da Eni e Shell per un grande campo petrolifero in Nigeria e neppure un cent è restato nelle casse dello Stato africano. Se li sono mangiati tutti gli ex ministri, i funzionari, gli uomini politici, i generali, gli intermediari e i portaborse. Ma la più grande mazzetta mai vista al mondo (secondo l’ipotesi d’accusa della Procura di Milano) non esiste. Eni non ha stretto alcun accordo corruttivo. Il caso è chiuso: la Procura generale di Milano ha rinunciato addirittura a celebrare l’appello e ha calato una pietra tombale sull’affare petrolifero del secolo, quello per acquisire l’immenso campo d’esplorazione Opl 245, nato nel 2010 già in maniera anomala: non da valutazioni aziendali o da scelte professionali, ma da un amichevole suggerimento di Luigi Bisignani, piduista con grande fiuto per gli affari, all’amico Paolo Scaroni, allora amministratore delegato di Eni. La Procura generale di Francesca Nanni non ha voluto neppure iniziarlo, l’appello (“Mai vista una cosa simile in 30 anni di lavoro”, ha commentato l’avvocato Lucio Lucia, rappresentante di parte civile dello Stato della Nigeria). “Questo processo deve finire perché non ha fondamento, non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive”, ha sostenuto in aula il sostituto procuratore generale Celestina Gravina. “Solo chiacchiere e opinioni generiche”. Diventa così definitiva l’assoluzione in primo grado del 17 marzo 2021, senza che una Corte d’appello abbia potuto rivalutare – ed eventualmente smentire – gli elementi di prova raccolti dalla Procura di Milano, come le email scambiate tra manager Eni e Shell durante le trattative per Opl 245, che secondo i pm e la parte civile “provano l’esistenza di accordi corruttivi e la consapevolezza delle due compagnie petrolifere”. Celestina Gravina non si è limitata a gettare la spugna dell’accusa, ma ha rivolto i guantoni contro la Procura di Milano, accusando gli accusatori di “colonialismo della morale”: come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto”, così i pm hanno “imposto” la loro linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti” (Gravina mostra di non sapere che le elezioni hanno cacciato i governanti presunti corrotti e che gli attuali sono presenti in aula, attraverso l’avvocato Lucio Lucia, a chiedere ai predecessori i danni subiti dallo Stato). I pm hanno “accusato due società”, Eni e Shell, che “hanno fatto la ricchezza della Nigeria”, ha aggiunto Gravina. Della Nigeria? Della sua corrottissima e ricchissima élite, semmai, nel neocolonialismo per interposta persona dell’“aiutiamoci a casa loro”.

Trent’anni dopo Mani pulite, è la disfatta della Procura di Milano, già devastata dalla lotta fratricida sui verbali sulla cosiddetta loggia Ungheria. È la vendetta finale contro il pm (Fabio De Pasquale) che è riuscito a far condannare prima Bettino Craxi e poi Silvio Berlusconi. È la sconfitta del giornalismo indipendente, che ha cercato di raccontare i fatti fin dall’articolo dell’Economist intitolato “Safe sex in Nigeria” in cui descrisse un accordo “fatto con il preservativo” per evitare a Eni e Shell “rapporti diretti con un ex ministro nigeriano del petrolio già condannato per riciclaggio” (che alla fine, comunque, incassa). Sullo sfondo, il non-detto: così fan tutti, senza mazzette i grandi affari internazionali non si realizzano e poi, via, non si devono colpire i “campioni nazionali”. Tutti puliti, nessuna corruzione. Oggi l’ad di Eni, Claudio Descalzi, sta girando il mondo, a volte con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, per firmare accordi sul gas con Egitto, Algeria, Congo… Una Penelope petrolifera, che sta tentando di disfare la tela degli accordi stretti per decenni da Eni che ci hanno incatenato alla Russia di Putin.


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