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l titolo è suggestivo: visioni dall’alto. Soppeso, verifico nel mio ambito e poi lo contraddico. Dall’alto si vede male. Dall’alto si vede piccolo e lontano. Il mio punto di vista è raso terra, dove mi accorgo di quello che succede: un brulichio di formiche, un sorriso improvviso, i cartelli di una manifestazione, la busta della spesa. Anche leggendo la scrittura sacra vado raso terra. L’Ararat di Noè, il Sinai di Mosè, il Moriah di Abramo sono alture esistenti in quelle storie, non simboli di altro significato. L’enorme barcone appoggiato sul primo scoglio emerso dal diluvio è scialuppa di provvidenziale salvataggio per le specie viventi in terraferma. Le tavole di pietra gravano sulle spalle del profeta in discesa. Il coltello sul collo del figlio incaprettato è sguainato, pronto. Niente di quelle alture è panoramico, niente di quelle storie scade in metafora. Quando scalo una parete intravedo tra i piedi il vuoto risalito, ma di più vedo ravvicinato. Il naso sta a un palmo dalla superficie verticale, tasto piccoli appigli, mi accorgo di un piccolo fiore che spunta da una fessura. Sono a contatto di fiato con la roccia. Solo alla fine arrivo a staccare le mani che non servono più alla progressione. Su una cima delle Dolomiti riconosco il cerchio dei nomi delle altre montagne, celebri a me per averle salite. Appartengono a giorni del passato. Sulla cima dove mi trovo sta invece filando il rapido presente, pulpito dal quale devo scendere. L’alto di una montagna è una frontiera dove la terra
smette e inizia l’atmosfera, materia in cui si vanno a sbriciolare asteroidi e comete. L’aria non è leggera: ha la consistenza sulla quale si appoggiano le ali in risalita lungo una corrente calda.
La terra ha altitudini irrespirabili dove pochi allenati riescono a sfruttare l’ossigeno disperso. Gli amici Romano Benet e Nives Meroi hanno portato il loro peso di passaggio sulle massime cime del pianeta. Quattordici di esse si sporgono oltre gli ottomila metri di quota. Le hanno toccate senza portarsi bombole di ossigeno e senza farsi servire da facchini di alta quota. Quando di notte salgono oltre i settemila metri vedono le stelle più in basso di loro. Lassù la curvatura della ter In parete si percepisce il proprio peso, il corpo sperimenta la frontiera La meta non è la vetta, ma la valle Luoghi dell’Infinito 55ra lo consente. Una volta Nives ha creduto che fossero le luci di un villaggio e non se lo spiegava, non ce n’erano in quella direzione. Potrebbe essere il titolo di un libro: “La donna che scambiò le stelle per un villaggio”. Su quelle altezze si riducono i sensi, il naso non ha niente
da odorare, la pelle è sotto strati protettivi, l’orecchio è riempito dal vento, la lingua è assetata di liquidi, la bocca di aria.
Il corpo sperimenta la frontiera, concentrato in se stesso. La cima è la distanza massima toccata, non il traguardo che sta invece in basso, al campo base. Chi pratica alpinismo ha sentito il ronzio di
alveare che precede la scarica del fulmine. Si rizzano i peli, l’aria freme, avvisa, ma non c’è riparo. La sua forza d’urto spinge a catapulta la materia intorno, frantuma sassi, li getta nel vuoto. Ci si
accorge di stare in una scossa di terremoto capovolta, dall’alto contro il basso.
La prima salita fatta da bambino dietro mio padre fu sopra il Vesuvio. C’era neve, la bocca del cratere era un gigantesco impasto di farina. Fui stupito dal freddo che stringeva il respiro e lo accorciava. In discesa affannai anche di più, i passi scivolosi, le cadute di schiena. Intorno a noi
una nuvola isolava da tutto. Mio padre cercava le orme lasciate in salita. Conosceva la neve che gioca a nascondere. Poi dal balcone di casa provai il buffo sentimento dell’orgoglio, per essere stato lassù. Da lontano sembrava irraggiungibile, ma da vicino, coi passi ripassati in quelli di mio padre, si poteva.
Da molte cime a cielo sgombro lo sguardo ha potuto sporgersi lontano. Ma dopo quella prima salita al Vesuvio ho l’impressione che sia più vera una montagna avvolta nel raccoglimento di una nebbia. Mi piace andarci quando è chiusa agli sguardi, assorta in se stessa. Dal Corno principale del Gran Sasso si plana con la vista sopra l’Adriatico. A me attira quando la sua cresta è dentro qualche nuvola accovacciata sopra. M’invoglia a raggiungerla per infilarmi dentro. La visione dall’alto, l’unica possibile per me, è quella che punta in su e si fissa sulle regioni dell’astronomia.

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