CINEMA IN LUTTO
Ciao Monica polvere di stella
di FULVIO FULVI
Difficile spiegare cos’è un’attrice. Le parole possono non bastare. E allora proviamo a ricordare, o a rivedere, un film interpretato da Monica Vitti, la diva antidiva del cinema italiano che da ieri «non c’è più». Facciamo scorrere sullo schermo della nostra memoria uno qualsiasi dei 55 film della sua trentennale carriera. Meglio se L’avventura (1960) o La notte (1961) diretti dal suo pigmalione Michelangelo Antonioni, drammi nei quali sa esprimere con straordinaria naturalezza l’alienazione e l’incomunicabilità di una donna moderna alle prese con rapporti vissuti borghesemente, senza capire «cos’è l’amore». Una Vitti inquieta, nevrotica, introspettiva, solare. Ma rivediamo anche, per piacere, La ragazza con la pistola (1968), di Mario Monicelli, capolavoro della commedia all’italiana, quella non banale, dove una Monica dai capelli neri e scomposti è Assunta, ragazza siciliana sedotta da un giovanotto (Carlo Giuffré) che la fa rapire ma poi, spaventato dall’inevitabile matrimonio riparatore, fugge in Inghilterra per rifarsi una vita. Ma lei segue l’amato con una colt nella borsetta per vendicare il proprio onore, finché però, affascinata dal nuovo mondo che ha scoperto, desiste dal suo proposito di rivalsa e di illibatezza da «donna di marmo», adeguandosi volentieri alla cosiddetta modernità. Brillante, esilarante, simpaticamente cinica. E se ci lasciamo prendere dalla vicenda narrata da Ettore Scola in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (1970), con la tenera e stralunata Adelaide contesa in un torbido ménage dai proletari ma maschilisti Mastroianni e Giannini, incominciamo a capire quale immenso talento l’attrice romana abbia mostrato anche sul set. E se non siamo ancora convinti di cosa sia veramente un’attrice, ecco.
Polvere di stelle (1973), di e con Alberto Sordi, sul teatro di varietà negli anni della seconda guerra, tra momenti di gloria e tramonti di una scalcagnata compagnia. Vulcanica, tragicomica, splendida Monica, anche quando balla, canta e fa duetti da sgangherata soubrette col capocomico Albertone. Chi ha stile come lei non cade mai nel volgare. E che dire di Io so che tu sai che io so( 1982) sempre con Sordi partner e regista? Un marito tradito, un errore e una vita borghese la cui consuetudine stanca. Il film non è granché, troppo riverso sul melenso e la sociologia a buon mercato, ma la Vitti svetta, giganteggia, commuove, anche quando viene sottomessa con violenza inaudita dagli schiaffi del consorte sulla spiaggia di Fregene.
Sapeva far ridere, Monica, anche nelle situazioni tragiche in apparenza. Perché l’essere comica era per lei «un impulso involontario». Può sembrare un giudizio offensivo ma non è affatto così. Ne era convinto Sergio Tofano, che ne scoprì il talento insieme a Orazio Costa.
Decise di fare l’attrice a 14 anni, Monica Vitti, anche per ribellarsi al cliché imposto dall’ambiente borghese della Roma in cui era cresciuta e da quello che volevano da lei i genitori: avere un marito, dei figli, un lavoro sicuro, che non fosse quello del saltimbanco in gonnella. Fare l’attrice per lei – lo ripeté più volte – era una necessità più che una vocazione, significava inventarsi un’altra persona ogni volta, in teatro o sul set. Un modo per essere libera, vincere l’angoscia della vita che gli si presentava davanti. Viaggiare con la fantasia, cambiare personaggio per appropriarsi di se stessa. Il suo nome d’arte lo aveva pensato seduta al tavolino di un bar, perché Maria Luisa Ceciarelli era troppo lungo da ricordare e forse un po’ ridicolo per un’aspirante diva che diva però non divenne mai, ancorata com’era alla sua semplicità di donna verace. Prima di accedere all’Accademia d’arte drammatica frequentò, appena sedicenne, il Pittman’s di Roma, dove si diplomò attrice nel 1953. E subito ottenne una scrittura per il coro di Ifigenia in Aulide. Ma il suo vero esordio in teatro è, sempre nel ’54, nella Mandragola di Machiavelli dove Tofano la chiamò a ricoprire il ruolo del “Prologo”. E con il grande attore, papà del Signor Bonaventura, recitò anche nell’Avaro di Molière diretto da Alessandro Fersen. Il palcoscenico diventò così per Monica il luogo privilegiato della sua formazione drammatica: sarà, ancora, Madre Coraggionella versione voluta da Lucignani e subito dopo reciterà con Alberto Bonucci in Senza rete e in Sei storie da ridere di Luciano Mondolfo dove svelò le sue doti di attrice brillante e di immediata comunicativa. La vera svolta però arrivò nel 1957 grazie all’incontro con Michelangelo Antonioni, regista già di consolidata fama che le offrì ruoli importanti nei suoi film più intimi e psicologicamente complessi.-
Popolarissima anche per le sue apparizioni televisive nei programmi del sabato sera (come non ricordare la sua divertente interpretazione della Canzone dei crauti di Bruno Lauzi), Monica Vitti è stata premiata più volte: sei David di Donatello, tre Nastri d’argento, un Orso d’argento nel 1984 al Festival di Berlino per Flirt di Roberto Russo, e un Leone d’oro alla carriera nel 1995 alla Mostra del cinema di Venezia. Si era ammalata di una grave sindrome degenerativa che la costrinse a lasciare le scene. Prima di ritirarsi per sempre a vita privata si mostrò al pubblico per l’ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana di Notre- Dame de Paris di Riccardo Cocciante. Poi, buio totale. E ieri se n’è andata in punta di piedi, a 90 anni. Magnifica signora dalla voce roca e dalla classe immensa. Venerdì in Campidoglio la camera ardente e sabato, alle 15, i funerali nella Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo. © RIPRODUZIONE RISERVATA