Lʼanalisi
di SEBASTIANO FADDA
La cosiddetta 'quarta rivoluzione' industriale, unitamente alla crisi pandemica e all’evoluzione degli scambi commerciali internazionali, genera profondi mutamenti sia nella composizione settoriale del Prodotto nazionale lordo, sia sui coefficienti tecnici di produzione.
Questo cambiamento strutturale si manifesta in tutti i contesti della vita sociale e non solo nel contesto della produzione industriale in senso stretto. Esso colpisce in maniera particolarmente profonda il mondo del lavoro.
Tra le conseguenze più significative vi è l’impatto sull’organizzazione del lavoro nelle unità produttive. Nonostante l’introduzione di innovazioni organizzative costituisca un processo complesso e progressivo, sono chiaramente visibili alcune tendenze emergenti.
Indubbiamente, l’organizzazione dei processi produttivi pianificati centralmente con l’assegnazione di compiti fissi e meramente esecutivi è destinata a scomparire. Al loro posto vi saranno processi caratterizzati da una maggiore autonomia dei dipendenti nel lavoro e nei processi decisionali, accompagnati da una crescente mobilità tra compiti e ruoli.
Inoltre, le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti dovranno necessariamente cambiare, e vi sarà una maggiore valorizzazione del capitale cognitivo dei dipendenti. Le mansioni lavorative di natura ripetitiva saranno ridotte, mentre cresceranno le funzioni collettive di problem-solving affidate alla responsabilità del gruppo. Recentemente si stanno sviluppando due tendenze particolari: lo smart work e il platform work. Per quanto riguarda il primo, si fa ancora qualche confusione circa la sua natura: lo smart work viene spesso identificato con il trasferimento all’esterno dell’azienda delle stesse mansioni precedentemente svolte nei locali aziendali, mentre invece esso consiste nella ristrutturazione dei processi produttivi in modo da combinare fasi lavorative svolte in presenza con fasi lavorative svolte a distanza. Il platform work nelle sue varie modalità si sta espandendo rapidamente e sta crescendo nel contesto internazionale.
Queste due modalità di lavoro in espansione richiedono un’analisi ancora più approfondita riguardo alle loro implicazioni a livello micro e macroeconomico.
La crescente molteplicità delle forme di prestazione lavorativa crea notevoli problemi sia sul piano dei sistemi di relazioni industriali e della contrattazione collettiva, sia sul piano della diseguaglianza nella distribuzione del reddito. La pronunciata dispersione salariale si manifesta col fenomeno dei 'working poors' e pone pesantemente il problema di una fissazione di una soglia retributiva minima al di sotto della quale non sia possibile scendere, come pure il problema delle pensioni per i soggetti con bassa capacità contributiva. Da tempo nel nostro paese si discute sull’introduzione di un salario minimo, e di recente si va intensificando la pressione degli organi comunitari perché i paesi che ancora non l’hanno adottato provvedano a farlo.
I processi di riallocazione del lavoro imposti dal cambiamento strutturale richiedono una revisione del sistema dei cosiddetti 'ammortizzatori sociali', ma anche un aggiornamento del sistema delle cosiddette 'politiche attive' del lavoro. In termini più generali e in un’ottica di mediolungo periodo è necessario verificare l’equilibrio tra 'effetto ridondanza' ed 'effetto compensazione' del cambiamento tecnologico; attorno a questo tema si stanno sviluppando indagini, sia sul piano teorico che su quello della sperimentazione empirica, circa l’ipotesi dello Stato as employer of last resort e circa la riduzione dell’orario di lavoro.---- Il processo di riallocazione del lavoro e l’evoluzione tecnologica fanno emergere nuove figure professionali e domanda di nuove competenze. Rilevare i nuovi bisogni formativi e facilitare l’acquisizione tempestiva di nuove competenze adeguate alla rapida evoluzione in atto non sono certo compiti facili. La formazione permanente, il sistema duale, tutto il sistema della formazione professionale e della istruzione terziaria vanno accuratamente ricalibrati. Cruciale è avere un attendibile e accurato quadro previsionale dei fabbisogni professionali e formativi a disposizione sia degli operatori della formazione e dell’orientamento, sia delle famiglie e degli individui che devono scegliere i percorsi formativi. Gli stessi programmi Gol e Fondo nuove competenze sarebbero piuttosto sterili senza questo punto di riferimento.
- Tutte le trasformazioni sopracitate, tuttavia, non si distribuiscono uniformemente nel nostro Paese, né dal punto di vista territoriale né da quello settoriale. Differenze dimensionali e caratteristiche dell’attività delle imprese determinano un quadro molto variegato.
Talvolta gli imprenditori possono essere esitanti nell’affrontare i rischi dell’innovazione; le condizioni di incertezza macroeconomica dopo la pandemia impongono maggior cautela. Inoltre, anche da parte manageriale può rilevarsi una certa resistenza ad uscire dagli schemi organizzativi tradizionali. Possono sorgere difficoltà ad accedere pienamente e rapidamente alle nuove tecnologie, sia per mancanza di attività specifiche di R& S, sia per inadeguatezza di ’capitale umano’ in grado di adottarle. Le infrastrutture di rete possono rivelarsi ancora insufficienti ad implementare tutte le interconnessioni digitali necessarie per l’adozione piena delle nuove tecnologie. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dovrebbe essere in grado di rimuovere questi ostacoli; dovrà tuttavia superare i limiti del Piano Industria 4.0, il cui maggior difetto è stato quello di fornire i soliti sussidi 'a sportello', piuttosto che prevedere azioni organicamente programmate in funzione di obiettivi specifici definiti con scelte selettive. Tutto ciò sarebbe possibile soltanto nell’ambito di un piano strategico di politica industriale, che purtroppo resta ancora un obiettivo da realizzare.