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La moglie indagata per caporalato: il prefetto Di Bari lascia il Viminale

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di Antonio Maria Mira
L’imprenditrice agricola foggiana quando aveva bisogno di braccianti chiamava il caporale gambiano, «consapevole delle modalità della condotta di reclutamento e sfruttamento». E lei stessa sottoponeva «decine di lavoratori di varie etnie» a «condizioni di sfruttamento» nella sua azienda sul Gargano «approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie». Sembrerebbe l’ennesima storia di lavoro schiavizzato se non fosse che l’imprenditrice, Rosalba Livrerio Bisceglia, è la moglie del prefetto Michele di Bari, capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, che dopo la notizia ha dato le di- missioni, subito accettate dal ministro Luciana Lamorgese. È sicuramente il fatto più clamoroso dell’inchiesta 'Terra rossa' condotta dai carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Manfredonia e del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Foggia, coordinati dalla Procura del capoluogo, tra le più impegnate nel contrasto allo sfruttamento.
 
Infatti l’indagine parte nel luglio 2020, quando a seguito di alcuni servizi di osservazione nell’ambito dell’operazione 'Principi e Caporali', viene individuato il caporale gambiano Bakary Saidy, 33 anni. Lui e un complice del Senegal, con- siderati «l’anello di congiunzione » tra le aziende e i braccianti, sono ieri finiti in carcere. Altre tre persone agli arresti domiciliari. Undici sottoposte all’obbligo di dimora, tra le quali l’imprenditrice moglie del prefetto. E10 aziende agricole sono state sottoposte a controllo giudiziario. Per tutti l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di immigrati residenti nel famoso ghetto di Borgo Mezzanone. I due caporali «reclutavano i braccianti, provvedevano al loro trasporto presso i terreni e li sorvegliavano durante il lavoro, pretendendo 5 euro per il trasporto e 5 euro per l’intermediazione».

 Inoltre si occupavano di dare «specifiche direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento in caso di accesso ispettivo da parte dei Carabinieri ». Lavoratori sottopagati, come emerge anche da alcune intercettazioni. Un bracciante chiede «quant’è la paga?» e il caporale risponde che il pagamento non sarà all’ora ma «a giornata» e pari a 35 euro al giorno per 6 ore, una somma che risulta «palesemente difforme dalle tabelle del contratto collettivo nazionale che preveda una somma netta di euro 50 per 6 ore e 30 di lavoro». E alla fine lavoravano anche più di 8 ore.

Anche nell’azienda dell’imprenditrice veniva violata la normativa relativa all’orario di lavoro e ai periodi di riposo, tanto che non veniva riconosciuta ai lavoratori «la retribuzione per lo straordinario, le pause (salvo una breve per il pranzo) e senza consentire l’utilizzo di servizi igienici idonei ». Inoltre, si legge ancora nelle carte, «è stata violata la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, in quanto i braccianti erano sprovvisti dei dispositivi di protezione degli infortuni». Drammatiche le condizioni del trasporto dei lavoratori, «con veicoli del tutto inadeguati e con evidenti rischi per la propria incolumità». Anzi, Saidy addirittura evidenziava «di riuscire a far entrare qualcuno anche nel cofano».-

 Sempre il gip scrive che l’imprenditrice era ben cosciente dell’illegalità. Così «si preoccupa, dopo i controlli, di compilare le buste paga, chiama Saidy per dirgli come e perché si vede costretta a pagare con modalità tracciabili e concorda che l’importo della retribuzione sarà superiore a quella spettante e che Saidy potrà utilizzare la differenza per pagare un sesto operaio che, evidentemente, ha operato in nero ». Contattata dall’Ansa, l’imprenditrice si è difesa. «Saprò dimostrare con carte alla mano la mia assoluta innocenza. Ho sempre pagato regolarmente con bonifici bancari».

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