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un largo consenso per il colle

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 Da Letta a Meloni


di Francesco Verderami


Il proposito di eleggere il prossimo capo dello Stato con un «consenso largo» è l’indicazione di un metodo — auspicato da Enrico Letta e Giorgia Meloni — che va salutato con favore. Perché se si realizzasse riunirebbe idealmente il Paese attorno al suo garante: sarebbe la forma più alta di unità nazionale, specie in un contesto di emergenza come quello attuale. L’idea anticipata dal segretario democratico a Venanzio Postiglione per il Corriere, e poi condivisa con la presidente di Fratelli d’Italia alla festa di Atreju, non è solo la dimostrazione che i partiti stanno già preparandosi alla corsa per il Colle. È soprattutto il primo e positivo passo verso la ricerca di un accordo capace di unire da un estremo all’altro gli schieramenti politici, che al momento sono divisi persino al loro interno.

La volontà di trovare una convergenza tra le forze di maggioranza e il partito di opposizione per ora è una enunciazione di principio. Poi costerà fatica arrivare in fondo. Ma bisogna dar credito al disegno, tralasciando le polemiche e le speculazioni: il fatto che il Pd non abbia oggi i voti per far da solo come in passato, per esempio; o che la mossa serva a sbarrare il passo a manovre centriste o a candidature ritenute insidiose. D’altronde fa parte del gioco politico. Anche nelle elezioni per il capo dello Stato del 1999 Walter Veltroni, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini agirono in contrapposizione a Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi e Franco Marini.

I l punto è che, proprio nella fase più cruenta del «bipolarismo muscolare», seppero realizzare il massimo consenso in Parlamento attorno al nome di Carlo Azeglio Ciampi.

Ecco come il progetto del «consenso largo» acquisirebbe spessore e dignità politica, perché è chiaro che — insieme alle due forze poste alle estreme — servirebbe l’impegno e il contributo determinante dei partiti che stanno in mezzo, e che rappresentano la maggioranza del Parlamento: un simile risultato, insomma, non potrebbe essere raggiunto se qualcuno volesse ascriversene la paternità. Ed è anche evidente che l’obiettivo si raggiungerebbe soltanto su una figura autorevole, nella quale le forze politiche e il Paese potrebbero riconoscersi per prestigio e competenza. In fondo sono queste le doti che si richiedono a un capo dello Stato, per di più in un contesto difficile a livello nazionale ed internazionale: con l’Italia che deve ancora uscire dalla pandemia e consolidare la ripresa; con l’Occidente impegnato a fronteggiare l’espansionismo economico e militare della Cina; e con l’Europa chiamata a dare segni di vita e di unità nella prova di revisione del patto di Stabilità.

Immaginare che la partita per il Colle possa trasformarsi in una resa dei conti tra fazioni, o che il voto sul capo dello Stato possa essere un’anticipazione della sfida per Palazzo Chigi, significherebbe non tener conto della realtà delle cose. Perché offrirsi al Paese con una lunga sequenza di votazioni andate a vuoto, con giorni trascorsi a contare schede bianche o a raccontare di candidati senza quorum, vorrebbe dire screditare ciò che resta — e resta veramente poco — dell’immagine della politica. E porterebbe alla deflagrazione del sistema, che nessuno può permettersi. La formula del «consenso largo» è la prova che i partiti hanno (forse) capito il rischio che corrono e fanno correre alle istituzioni. Lo s’intuisce dal modo in cui anche Matteo Salvini si appresta a un giro di colloqui per arrivare a un tavolo comune, dove discutere e cercare una convergenza.

Cade così il paravento dietro il quale finora le forze politiche si erano nascoste, la tesi cioè che il tema del Quirinale si sarebbe affrontato solo dopo il varo della Finanziaria. Manca poco tempo all’appuntamento e i nodi da sciogliere sono numerosi. Il metodo proposto per la scelta del futuro presidente della Repubblica potrebbe inoltre agevolare la discussione su una nuova legge elettorale, che andrebbe adeguata alla nuova stagione del bipolarismo frammentato. E potrebbe consentire di cambiare — in vista della prossima legislatura — i regolamenti di Camera e Senato che non sono stati ancora adeguati al taglio dei parlamentari.

La verità è che i partiti sono stati finora colpevolmente inadempienti e non hanno approfittato della «safety car», cioè del governo di larghe intese, per risistemarsi in pista in attesa di riprendere la competizione. Ma non c’è dubbio che tutta l’attenzione — e non da oggi — fosse concentrata sul rebus Quirinale: a fronte di un Parlamento balcanizzato, la chiave del «consenso largo» potrebbe garantirne la soluzione in modo rapido. Ecco l’esame di maturità per le forze politiche.


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