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Bourke-White la vita è l’obiettivo

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Una mostra a Milano rende omaggio alla grande fotografa americana di “Life” 

 testo di Alessandro Beltrami

La fila per il pane durante le alluvioni a Louisville. Kentucky, USA, 1937


 La fotografia è forse la tecnica in cui il talento femminile ha potuto affrancarsi e manifestarsi più precocemente. Per quanto proporzionalmente inferiore agli uomini, il numero di fotografe (in particolare nel mondo anglosassone) nella fase pionieristica e poi in quella del boom nella prima metà del Novecento è significativo e il loro contributo particolarmente importante: si pensi, per quanto riguarda i decenni tra le due guerre, a Imogen Cunningham, Tina Modotti, Dorothea Lange, Berenice Abbott, Gerda Taro… Questo forse anche perché la fotografia non era generalmente considerata un’arte ma una tecnica di documentazione e di racconto della realtà e soprattutto un “mestiere”, anzi il mestiere ideale in società dai caratteri ormai pienamente moderni con una dimensione urbana, industriale e massmediatica particolarmente sviluppata.
Ballare in Montana,1936


 A quel gruppo di fotografe e a quel contesto appartiene anche Margaret Bourke-White. La sua storia esemplare potrebbe uscire da un romanzo di Dos Passos. Margaret nasce nel 1904 a New York in una famiglia borghese. Il padre è un inventore e trasmette alla figlia la passione per le macchine e per il confronto aperto con la tecnologia. Studia con il fotografo pittorialista Clarence H. White, già amico e collaboratore di Alfred Stieglitz e fondatore della prima scuola in America a insegnare la fotografia come forma d’arte. Dopo alterne vicende e un precoce sfortunato matrimonio si iscrive, ancora poco più che ventenne, alla Cornell University, dove capisce che realizzare e duplicare scorci fotografici del campus può essere un’attività non solo creativa ma anche redditizia. Compie quindi il salto nella professione. Apre a Cleveland uno studio fotografico e si costruisce una strada nel mercato della fotografia industriale e pubblicitaria.

 Alla Bourke-White il coraggio non manca. Acquista fama per le sue immagini spettacolari di altiforni, ripresi da punti di vista decisamente temerari. Una celebre fotografia la vede appollaiata su un gargoyle dèco del Chrysler Building a quasi trecento metri di altezza sopra Manhattan. Al sessantunesimo piano del più bel grattacielo di New York, trionfo dell’era dell’elettricità e della macchina, Margaret ha ormai il suo studio. Nel 1929 l’editore Henry Luce l’aveva invitata a far parte della nascente rivista “Fortune” e quindi dal 1936 della completamente rinnovata “Life”: pubblicazioni rivoluzionarie in cui la fotografia ha un ruolo da protagonista.

 Per i due periodici alterna il lavoro di fotografa pubblicitaria a reportage sull’universo del lavoro negli Stati Uniti e dal mondo: nel 1930 sarà in Germania e poi in Russia, dove tornerà più volte. Essa stessa è l’emblema della donna moderna e indipendente, volitiva ed energica, attentissima nel gestire la propria immagine. I suoi coordinati, che comprendono cappello, gonna, guanti e panno della macchina fotografica, diventano proverbiali. Il suo studio tra le nuvole è corredato da una vasca con alligatori.


 Margaret Bourke-White incarna l’icona della lunga belle époque newyorkese, capace di resistere al crollo di Wall Street e di arginare la Grande Depressione. Ma fuori dalla Grande Mela, la fame morde. Le vastità delle pianure meridionali sono devastate dalle tempeste di sabbia causate dalla siccità e dai metodi di coltivazione invasivi che avevano depauperato il suolo. Le nuvole nere di polvere (“ dust bowl” le chiamavano), capaci di oscurare il cielo fino a Chicago, desertificano Texas, Kansas, Oklahoma, distruggendo case e mezzi di sostentamento per oltre mezzo milione di persone, molte delle quali migrano in massa a Ovest. Margareth Bourke-White ascolta la sua vocazione di reporter e nel 1936 con lo scrittore Erskine Caldwell (che diventerà, di nuovo per pochi anni, suo marito) documenta la situazione del Sud degli Stati Uniti. Ne esce nel 1937 You have seen their faces, caposaldo dell’editoria fotografica e capostipite della serie dei volumi d’inchiesta realizzati a quattro mani da uno scrittore e un fotografo sugli anni della Great Depression, da An american Exodus. A record of human erosion (1939), realizzato da Dorothea Lange con il marito, il sociologo Paul Schuster Taylor, a Let us praise now famous men (1941), di Walker Evans e James Agee.

 Inizia contestualmente la grande epopea di “Life”, la sua vera “casa”, sul primo numero della quale firma la prima copertina e un reportage dal mondo operaio del Nord Ovest industriale. L’obiettivo di Margaret Bourke-White, dopo averlo celebrato, incrina il sogno americano, come nell’eloquente scatto del 1937 con la fila per il pane durante le alluvioni a Louisville, in Kentucky, sotto un fiammante manifesto dell’american way of life. Con la rivista la fotografa inanella una serie di primati. Come scrive Alessandra Mauro, è stata «la prima a documentare la Russia del piano quinquennale e l’unica a ottenere una sessione di posa da Stalin. La prima per cui viene disegnata la divisa di corrispondente di guerra. E poi, la prima a riprendere l’orrore del campo di concentramento di Buchenwald, a testimoniare l’India nel momento di separazione con il Pakistan e l’unica a realizzare un intenso ritratto del Mahatma Gandhi a poche ore dalla sua morte. La prima a scendere sottoterra con i minatori in Sud Africa, a fotografare la segregazione razziale degli USA a colori».

 Nel 1952 si manifestano i segni della malattia invalidante che la costringerà, lei “Maggie l’indistruttibile”, ad abbandonare di lì a qualche anno la professione e che la porterà alla morte nel 1971. Bourke-White affronta l’esperienza del Parkinson con lo stesso coraggio con cui ha vissuto la sua carriera, arrivando a mettersi dall’altra parte dell’obiettivo. Nel 1959, dopo un’operazione, riceve la visita del collega di sempre Alfred Eisenstaedt
«Il caro Eisie– scrive nella sua autobiografia – venne a trovarmi all’istituto. Mi vide così felice del mio programma di recupero che decise di indossare l’uniforme del fotografo – quella corazza che rende invisibili e permette di scattare foto non visti pur essendo nel mezzo di una stanza affollata – e di seguirmi nelle lezioni di riabilitazione per scattare bellissime foto che potessero lasciarmi la testimonianza di quei giorni. Poi, come spesso avviene ai grandi fotografi, il progetto si allargò e divenne un reportage per “Life”, con noi due a lavorare in squadra. Eisie mi conosceva bene e capì immediatamente quanto questa esperienza mi avesse toccata e quanto fossi disposta a mostrare il risvolto profondamente umano e intimo di quel che era successo. I giorni dei segreti erano finiti. Ora ero pronta a condividere».

 “Margaret Bourke-White. Prima, donna”, a cura di Alessandra Mauro. Milano, Palazzo Reale. Fino al 14 febbraio. Catalogo Contrasto. Info: palazzorealemilano. it.

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