Per Daniele Capezzone, i giobalisti si sono rinchiusi in Ztl politicamente corrette incapaci di dialogare con l'elettorato E a Salvini dice: «Matteo, non ti moderare»
E'una delle penne più arrotate e lucide de La Verità. Sempre sorridente nelle sue frequenti uscite televisive, quasi geometrico nell’enunciazione del suo punto di vista, un ap/omb che ricorda quella Gran Bretagna per la quale - da Winston Churchill e Margaret Thatcher arrivando sino al geniale scrittore P. G. Wodehouse, accusato maldestramente di collaborazionismo con la Germania a fine guerra per alcune trasmissioni radio - nutre una simpatia decisamente marcata. Ex parlamentare, già radicale poi con Forza Italia, Daniele Capezzone non ha mai smesso di fare politica. Difesa dei valori occidentali, ma anche della sovranità nazionale, dura guerra al politicamente corretto e alle derive liberal: il tutto non più da uno scranno in Parlamento, ma attraverso il giornalismo e il ruolo di commentatore. Capezzone ha da poco dato alle stampe Likecrazia (Piemme) in cui analizza lo show della politica e del giornalismo (e i loro tanti vizi) al tempo del coronavirus. Un libro pieno di spunti di riflessione. E di chiavi di lettura per capire le tendenze in atto.
Nel suo ultimo libro cita una ricerca dell’Università Statale di Milano: quanto è lontano dalla maggioranza dei cittadini il giornalismo di oggi?
«Non c'è dubbio che la ricerca attribuisce dei numeri che confermano la nostra percezione: esiste una bolla mainstream che ritiene accettabile una sola posizione e tutto il resto inaccettabile, si continua a dare le pagelle agli elettori anziché ascoltarli».
Chi compone quelle che definisce le Zt del politicamente corretto?
«C'è un elemento sociologico o antropologico di una Roma centro e di una Milano centro che vede direttori di giornali, commentatori televisivi, ceto politico che - lo dico senza sarcasmo - fa vacanze insieme, va a cena insieme, manda i figli nelle stesse scuole e che sono completamente separati dal resto del Paese. A sinistra si parla di empatia, ma si dimenticano di essere empatici, di mettersi nei panni degli altri, di chi prende quattro autobus al giorno per andare a lavorare. A questa gente della Ztl politicamente corretta il popolo non piace».
Coronavirus: una storia emblematica del giornalismo e della politica ai giorni nostri.
«Il tratto comune - sia nella fase iniziale, quella della sottovalutazione con venature razzistiche per chi sosteneva il pericolo, sia nella fase della drammatizzazione eccessiva - è la colpevolizzazione del cittadino che è prima razzista, poi porta a spasso il cane, poi va in discoteca o in vacanza. Il tutto è perfettamente funzionale a mettere in secondo piano l’attenzione per le risposte date dal governo».
«Il loro metodo è sempre lo stesso: la “fascistizzazione” dell’avversario, la criminalizzazione politica della proposta politica diversa. Faccio due esempi: le sardine che usano Bella ciao per paragonare subliminalmente Salvini a un invasore; oppure la questione immigrazione: in tutto il mondo il tema genera due approcci più o meno rigorosi al problema, ma entrambi legittimi, riguardo alle politiche di integrazione. Da noi il dibattito è fatto per dimostrare che una delle due opzioni è disumana, razzista. È tutto veramente molto pericoloso».
«Vero, ma aggiungo una precisazione. Vedo queste cose non solo in termini di demonizzazione delle tesi sgradite, ma anche nella imposizione conformistica di un solo atteggiamento accettabile, ammantato di un che di religiosità. Vedo un complesso di inferiorità di alcuni di questi del mainstream che non riescono ormai a sostenere un dibattito e pensano di vietarli: è inammissibile».
Urss come Ue: i comunisti e i loro eredi sembrano aver bisogno di un riferimento estero, di un approccio storicista.
«Fanno lo stesso tipo di difesa storicista di allora, ovvero che se non si comprende che la Storia va in una certa direzione, si va contro la Storia stessa. E come per l’Urss e il comunismo, senza ovviamente paragonarlo. alla Ue, si sostiene che le teorie non sono state applicate bene, che serve più Ue come prima serviva più comunismo. Lo dico io che non ho certo dei tratti antieuropei. È un impulso forzato verso l’uniformità».
«Il professor Di Gregorio nel suo Demopatia vede con preoccupazione quanto sta accadendo, e del resto con dieci post su Facebook, cinque tweet, tre trasmissioni in diretta nel solito giorno è un logoramento continuo di chi fa politica. Anche Churchill, con questa esposizione mediatica, avrebbe fatto errori: la turbopolitica divora».
C'è un politico di cui si fida?
«Di molti: il mio libro è diretto sia a chi guarda la tv da casa, ma anche a chi è sottoposto a una impresa improba, ovvero a chi fa politica. Il tema, comunque, non è quello della fiducia, ma di comprendere le difficoltà in cui si muovono».
Il sovranismo sembra ripiegare e spuntano i grilli parlanti che lo invitano a moderarsi: un modo per svuotare ogni progetto alternativo alla giobalizzazione selvaggia?
«Qualunque sarà l'esito delle elezioni Usa, la mezza America a cui Trump ha dato voce e a cui ha dato risposte non è destinata a scomparire. Portandoci da questo lato dell'Atlantico, Salvini farà bene a non ascoltare le voci di eccessivo “moderatismo”: non è il momento di proposte comprensibili alle Ztl politicamente corrette di cui parlavamo, ma di proposte forti in grado di raggiungere fasce sempre più ampie di elettorato. Manca semmai una forte campagna antitasse e pro-impresa, non qualche centrino moderato. Salvini farà bene a respingere queste voci».
Deep state e centrodestra sono entità inconciliabili?
«È giusto, ma è troppo facile per il centrodestra dire dopo 30 anni che i mandarini sono tutti dall'altra parte. C'è da chiedersi cosa ha fatto per costruire un’alternativa a quel mondo».
Da radicale a sovranista, passando per Forza Italia, come è arrivato a descrivere questo percorso?
«Mi considero immobile da una vita, ovvero liberale, liberista, libertario. Liberale, perché voglio meno ruolo allo Stato; liberista, perché credo nel mercato; libertario, perché credo nella libertà di scelta individuale. Ripeto questi concetti in modo quasi arteriosclerotico da quando ho 15 anni e sono fiero di ogni passaggio della mia vita politica e da commentatore. Non credo alle etichette, oggi la divisione è doppia: tra chi sta nel conformismo, e io sto dall'altra, e tra chi vuole assegnare un potere sempre più grande allo Stato e anche in questo caso sto dall'altra parte».
PN